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ALTO RENO TOSCANO (http://groups.msn.com/ALTORENOTOSCANO)
AVANZI LONGOBARDI E GERMANICI IN ALTO RENO E NEL PISTOIESE
protomi della Chiesa di Spedaletto (PT)
E' noto che arimannie longobarde si insediarono nell'Alta Valle del Reno ed è altrettanto noto che la città di Pistoia fu eletta sede di un Gastaldato longobardo con diritto a battere una propria moneta. Numerosi studi storici dimostrano l'importanza e l'intensità della presenza, nel medioevo, dei longobardi anche in queste terre, ma quello che manca, tutt'oggi, è una ricognizione su quanto è sopravvissuto nella nostra cultura e nei nostri dialetti di questa dominazione e, più in generale, una ricognizione tesa ad individuare quanto è rimasto nella nostra cultura e nei nostri dialetti dell'antica cultura germanica (sia essa franca, gotica o longobarda, sia essa di adstrato o di superstrato). Con questo lavoro (che ha assunto nel tempo dimensioni ponderose) ci piacerebbe offrire un punto di partenza per successivi approfondimenti da parte di tutti gli studiosi e gli appassionati. Da parte nostra, infine, siamo convinti che il nostro lavoro potrebbe essere tranquillamente imitato in molte altre parti della penisola Italiana (da Nord a Sud) con risultati davvero interessanti (ad esempio il centro avellinese di Atripalda prende il nome dall'antroponimo germanico Atripald mentre, tornando in Toscana, i toponimi Dorna e Dornarotta a Civitella in Val di Chiana (AR) sembrano proprio ricondursi al germanico dorn > spina. Passando dai toponimi ai nomi comuni, e rimanendo sempre in provincia di Arezzo, si può segnalare il termine 'salvo' che significa "sudicio" perché ha origine dal longobardo salawu > sporco)
AMBITO DI RICERCA
La provincia di Pistoia (in particolare il territorio che fa capo ai comuni di Sambuca Pistoiese, Pistoia e Montale Pistoiese) e i Comuni di Lizzano in Belvdere, Granaglione, Castel di Casio, Camugnano, Porretta Terme, Gaggio Montano. Il territorio ( complessivamente circa 1300 Kmq di cui 965 kmq costituiscono la provincia di Pistoia) rappresenta sotto alcuni importanti aspetti di natura storica, culturale e anche linguistica un unicum estremamente interessante soprattutto ai fini della presente ricerca. Il territorio del Comune di Sambuca Pistoiese, in considerazione della sua particolare situazione storica e geografica, verrà considerato all'interno di questo lavoro indifferentemente come parte integrante dell'area altorenana e dell'area pistoiese. Dopo un'attenta valutazione si è invece deciso di escludere, dal nostro ambito di ricerca, i territori appartenenti alla Diocesi di Pescia non ricompresi nel territorio della provincia di Pistoia anche se i suddetti territori appaiono, comunque, di grande interesse nell'ambito di una ricerca di germanistica (a mero titolo di esempio ricorderemo, per questi territori ecclesiasticamente pesciatini ma fuori dalla provincia di Pistoia, l'esistenza di dedicazioni santoriali quali San Salvatore nell'omonima località e l'esistenza di toponimi come Altopascio > da lgb Þeudo-bakiz).
LESSICO
Il Rauty registra i seguenti vocaboli d'uso pistoiese (e - aggiungiamo noi - d'uso altorenano) di origine longobarda:
cafaggio da gahagi, greppia da kripja o kruppja, panca da panka, scaffale da skaf, staffa da staffa, spanna da spanna, stecco da stek, stollo da stoll, trogolo da trog, sbreccare da brehhan (cfr. p. 137 di N. RAUTY; "Storia di Pistoia, Vol. 1, Firenze, 1988). A questi vocaboli lo stesso Rauty aggiunge "cafaio", "gastaldio" e "scandola", quest'ultimo da un non meglio precisato vocabolo longobardo (cfr. Op. cit., p. 147).
Ma in effetti, molti altri vocaboli
d'uso pistoiese e altorenano sono di origine longobarda o germanica
(con importanti gotismi), ad esempio: becco (capra) da bikk, zolla da
zolle, bergare (sostare per la notte) da berga (alloggio), scranna (a
Pistoia e in diverse zone dell'Alto Reno col significato di 'donna
sgraziata - specie per le gambe storte') da skranna (sedile), scranna
(questa volta nel senso di seggiola, che risulta presente in Alto Reno
e in alcune aree rurali del pistoiese come San Mommè e Montale
Pistoiese) sempre da skranna, aschero (desiderio, nostalgia) da eiskon,
stracanarsi (affaticarsi) da strak (teso, tirato), sempre da strak
abbiamo stracco (stanco) e straccaia (forte affaticamento), stocco
(fusto spec. del granturco) da stok (tronco d'albero), tanfo da thamf,
brace (altorenano brasge) da bras, bracino (tritume di brace / carbone
tritato) sempre da bras, strozza (nel senso di gola) da strozza, rosta
(l'argine per fermare le castagne che cadono) da hrausta, sghezza da
skid, bislacco da slahh + bis, zana (cesta per i panni lavati) da
zainja (cesto), burischio (usato a Treppio) da blutwurst
(sanguinaccio), broda (il cibo per i maiali) da brod, broda /brodaione
(persona che parla troppo o a vanvera) ancora da brod, balco (soffitta)
da balk o palk (travatura), biga, pistoiese biha, col significato di
mucchio (longobardo biga con identico significato), bernecche
(ubriacarsi), berlocca (parlantina) e berlecca (bugiarda) dal medio
tedesco locche (richiamo da caccia) + prefisso ber), gremmo (carico) da
krammjan (riempire), gualca (quantità indeterminata) da walka
(pezza di feltro), bindella (ragazzaccia) da binda in quanto aggira,
abbindola , bindella (fettuccia) sempre da binda, rocchio (pezzo di
legno) da krukkja (bastone biforcuto), fiappo (floscio) da un incontro
tra il latino flaccus col sinonimo germanico schlapp, fiasca (il fiasco
rivestito di vimini con manico) da flasko, sbrecca (oggetto malandato)
da brehhan (rompere), breccia e breccino(entrambi col significato di
'pezzetti di sasso frantumati') da brehhan, buriana (confusione da
alterco) da burjan (trovare un animale) e birhoffian (schiamazzare),
chiocco (colpo / botta) da klohhon (battere), ciuffi (capelli) e ciuffo
(particolare acconciatura dei capelli) da zopf, locco (termine che
indica sia lo stupido che la pula del grano) da luk (incerto / vuoto /
non compatto di spighe), da luk (per la sola area pistoiese) si ha
anche locco nell'accezione di persona che ha perso la propria
vivacità per malessere o altra ragione, groppo (nodo) da krupfa
(massa rotonda), lecca percossa che ha il corrispondente nell’inglese
moderno to lick (colpo di bastone), schergnare (deridere) da skernjan,
grinfia (mano in senso spregiativo) da grifan (afferrare), da un
incrocio tra
grifan e rampf si ha invece rinfa (unghiello del gatto), ranfia (unghia
lunga) e
ranfio (gancio ad uncino). E ancora si ha guaimme (fieno al secondo
taglio) da
waidanjan (pascolo), berlingozzo (un dolce tipico pistoiese, ma
attestato anche in alcune località dell'Alto Reno) con prefisso
germanico ber e forse collegato al termine bretling > piccola tavola (cfr. le voci berlingozzo, berlingaccio e berlengo del dizionario etimologico del Pianigiani), lornia e lorgna (fiacca / stanchezza) dal germanico
lurna (stare alla posta).
Probabilmente sono di origine longobarda (o germanica) anche termini
come "sghembare", sghengo, sghilembo, etc. E longobardi potrebbero
essere anche i termini bricca (dirupo) e "binde" (= cosa che richiede
molti sforzi). Al primo si può imputare una qualche somiglianza
con "bricco" e con "breccia" (entrambi i lemmi sono derivati da parole
longobarde), anche se è tutt'altro da escludere un originaria
radice celtica "bri" (cima). Al secondo si dovrà riconoscere una
indubbia somiglianza con il longobardo "winde" per argano (si fa
presente che in area pistoiese e altorenana non è difficile
trovare passaggi da V a B (vedi bacillare per vacillare)).
Per rosticcio (bimbo mingherlino) Guccini propone una origine dal germanico raustian.
E ancora per l'Alto Reno:
sguillare (scivolare) da 'quillan' (zampillare), magone (ventriglio del pollo) da mago (stomaco), nappa (nasone) da napp(j)a, blacco (straccio) da vlek (pezzo di stoffa) o da blaich (pallido), sprocco (grosso spino / stecco) da sproh (germoglio), sbrecco da brehhan (rompere), sprucaglino (bambino) dal germanico sproch (rametto) faldana (piccola forcata di fieno) dal germanico falda (fascio), sbreggola (scheggia di legno lunga e sottile) da brehhan (rompere), scaiia (un tipo di pietra) da skalia (squama, scheggia), bricco (maschio della pecora) da tardo latino burricus (cavallo) + longobardo bikk (capra), suppa (zuppa di verdure e pane raffermo) da longobardo supfa (zuppa), banciolo (sgabello basso) e banciola (panca del focolare) da bank. Mentre per l'area pistoiese si registra bilinchi (usato nel sintagma "stinchi bilinchi"), bilenco (stupido) e pilenco (tonto, melenso) che prevengono (come l'italiano sbilenco) da un longobardo link (mancino, storto). In qualche località rurale pistoiese (alta valle dell'Ombrone) sopravvive anche gheffo (balcone) da waif.
Per Francesco Guccini derivano dal longobardo anche i nostri stricare (stringere), pilucare (italiano e toscano pilluccare), scaracchio (pistoiese scaraglio), etc. E al longobardo brihhal risale, secondo Barbara Beneforti, il termine badese bricola (= cosa da nulla). Se l'ipotesi della Beneforti è corretta, come noi riteniamo, saranno di quasi certa origine longobarda anche i termini briccica (bagatella, piccola parte di chichessia), abbriccigo (oggetto di poco valore o che funziona male), abbriccicare (cercare di aggiustare alla meglio), abbriccichino (ragazzino patito), etc. presenti tra il pistoiese e l'Alto Reno.
Il nostro "bioscio" e il toscano "bioscia" (entrambi col significato di "senza companatico - non condito") derivano dal longobardo "blauz" col significato di 'nudo'. Sempre da blauz si ha il termine "broscia" (variante sbroscia, con inversione delle liquide l > r) ad indicare una bevanda o una minestra insipida e cattiva. Dal longobardo zainja (cesto) viene il termine "zana" usato ad Orsigna per indicare le bare per i bambini: "costumanze per portare gli angeli: zana foderata di bianco e trina ed intorno all'orlo orecchini, anelli e vezzi, catena, ecc." (R. Beccherucci Corrieri, "Val d'Orsigna", Edizioni CRT, Pistoia, 2000, p. 105).
E questo senza dimenticare le forme italiane (tutte presenti in Alto Reno) di albergo anch'esso (come il pistoiese bergare) da berga, stamberga da stain + berga, benda da binda (legare, unire), palco da palk (travatura), palchetto sempre da palk (ancora da palk abbiamo il "palco morto" ad indicare le soffitte non praticabili), scuro da skur (protezione), federa da fetzen, zaino (a Treppio esiste la variante zanghio) da zainja (cesto), trappola da trappa, zecca da zihha, slitta e slittare da slita, lesto da list (astuzia), strofinare da straufinon, trincare da trinkan (bere), arraffare da hraffon, barella da beran (portare), scherzare da skerzan, stordire da stornjan, stronzo da strunz (sterco), gora da wora (chiusa), crampo (in molte località dell'Alto Reno è detto granchio) da Krampf (crampo), zazzera (chioma ribelle) da zazza (ciuffo di capelli), zanne da zann (dente), bega da bega (lite), bicchiere da behhari, angheria (nell'antico dialetto di Treppio angaria), etc. in uso anche nella lingua italiana.
E ancora stalla, sala (vedi il toponimo urbano de 'La Sala' a Pistoia, la piazza del "leoncino" dove aveva sede il Gastaldo), etc. (I)
A Montale Pistoiese si registra una variante originale di "balco" (da palk > travatura) che viene usata per indicare i fienili in generale. Sempre a Montale, e in altre aree del pistoiese, sopravvive anche "catro" (da gatero > porta della siepe) voce usata per indicare i cancelli rustici.
A Treppio sopravvive un originale derivato della lingua gotica "manassi" (vestirsi) da un originale "manwjan" (preparare). In area pistoiese abbiamo riscontrato anche "ammannire" (preparare per accendere un braciere o uno scaldino) e "ammannare" (preparare in generale) che derivano, entrambi, dalla stessa voce gotica.
In Alto Reno è invece da segnalare l'originale sostantivo maschile "crocchio" che intende definire un gruppo di persone che conversano. Anche per questo termine è stata proposta una origine germanica assimilabile al medio alto tedesco kroten o all'inglese crowd (= folla di gente). Sono di origine latina e non germanica invece i termini pistoiesi e altorenani di crocchia e crocchione (= testone e suo accrescitivo) dato che derivano dal latino cochlea con r epentetico.
Molto produttivo, in particolare appare il termine brehhan (corrispondente gotico brikan) che ritroviamo, oltre nei casi sopra citati, in parole come sbergolare, sberciare, bercio (tutti e tre col significato di urlare). Particolare attenzione meritano i lemmi bercio e sberciare dato che rappresentano un incrocio tra il tardo latino berbex (pecora) col nostro brehhan, il significato letterale delle due parole, quindi, è "rompere l'aria con belati da pecora" (sbergolare rappresenta, invece il caso di un ulteriore incrocio di sberciare con gola).
Di origine germanica, ancora in esempio, è leppa (paura) che deriva dall'antico germanico slipan, e germaniche sono altre parole di uso quotidiano come busco (corpuscolo nell'occhio), dal gotico busk.
A volte l'origine delle parole da radici germaniche risulta particolarmente complicata. Tale è il caso del termine "brocco" ad indicare il ramo; come è noto l'etimologia del termine "brocco" va ricondotta al latino "broccum" (sporgente) e tale è il senso in Varrone ("dentes brocchi"), ma più tardi, per influsso del longobardo sproh a cui brocco assomiglia foneticamente, il significato originario del termine si è esteso fino a comprendere l'attuale valore di "ramo". E attraverso un ulteriore passaggio è possibile ipotizzare una genesi "germanica" per il vocabolo d'uso pistoiese ed altorenano "brocciolo" ad indicare un pesce (nome scientifico cottus gobius) in qualche modo affine al ghiozzo di fiume: Secondo alcuni infatti (cfr. La Musola n. 33 (1983), p. 105) il termine "brocciolo" deriva da "brocco" (rametto) a sua volta derivato dal longobardo / germanico "sproh" come abbiamo potuto vedere sopra. Se l'ipotesi dovesse risultare fondata sarebbero parole di derivazione longobarda indiretta anche "brocciolare", "brociolio", "brocciolone" (tutte riferite al parlare confusamente) originate da una antica tradizione (la cui memoria è quasi scomparsa) che vuole questi animali emettere dei sordi borbottj.
E' da osservare che in Alto Reno il numero di parole longobarde è maggiore non solo rispetto all'italiano, ma anche rispetto al pistoiese (vedi ad esempio 'magone'). Pertanto, pur trovandoci di fronte a un modesto bottino, si può sostenere che anche il lessico conferma che l'Alto Reno non è stato completamente assimilato e che l'afflusso di elementi germanici fu in passato di non lieve importanza (II).
Molto interessante è il termine pistoiese "feudino" (persona furba / persona che veste con estrema ricercatezza) che deriva dal longobardo "fehu" (bestiame). In entrambi i casi il termine pistoiese sottintende un riferimento alla ricchezza (in un caso ricchezza d'ingegno e nell'altro possibilità economica di potere vestire in maniera ricercata), e ciò è di grande aiuto nel ricostruire l'etimologia del termine: fino a tempi recenti il bestiame era la ricchezza più importante e tale significato è passato nell'espressione "pagare il fio" e nel composto, ormai desueto, di metfio ("dono del fidanzato alla fidanzata che viene consegnato il giorno delle nozze").
E rimanendo in tema di espressioni contenenti termini germanici ricordiamo il proverbiale pistoiese "orma' son brenna". Il termine brenna, usato nel pistoiese e in alcune località dell'Alto Reno per indicare persone, animali, cose vecchie o di nessuna utilità, ci pare ricondursi all'istituzione longobarda della "bremma" (con variante "brenna") che consisteva nel tributo dovuto ai signori per il pasto dei cani da caccia... come dire che qualcuno in brenna è pronto a farsi pasto per il cane!
Tutti questi elementi lessicali ci aiutano, peraltro, a capire come "anche nel territorio pistoiese la lingua dei Longobardi fu assai diffusa ed usata a lungo" (N. RAUTY, "Storia di Pistoia", vol. I, Le Monnier, Firenze, 1988, p. 146) in una situazione di sostanziale bilinguismo che sopravvisse più a lungo rispetto alle aree urbane: "La rapida assimilazione della lingua latina fu un fenomeno che interessò principalmente le città, nelle quali si svolgeva ogni attività di vita pubblica, civile e religiosa, dove il clero, i notari, i funzionari della corte del duca o del gastaldo usavano costantemente questo linguaggio nei testi scritti, nelle preghiere, nei rapporti ufficiali... Diversa era la situazione nelle campagne, dove le esigenze di carattere culturale o giuridico erano quasi del tutto assenti. La contemporanea presenza sullo stesso territorio di due gruppi etnici, sia i lavoratori romanici degli antichi latifondi, sia i massari longobardi delle nuove curtes, ed il loro quotidiano contatto nella comune fatica della coltivazione della terra, rese naturale il passaggio di numerosi vocaboli longobardi nel lessico di quel nuovo linguaggio volgare che andava lentamente formandosi, on voci per lo più legate al mondo rurale, rimaste poi anche nel moderno italiano" (N. RAUTY, "Il Regno longobardo e Pistoia", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2005, pp. 139 - 140). Da tutto ciò, tuttavia, non può discendere né per la nostra area di studio, né per l'Italia in genere, alcuna conclusione alla Bruckner secondo il quale, all'alba del secondo millennio, persistettero gruppi di persone che parlavano il longobardo. Gli argomenti di Bruckner, infatti, se esaminati con attenzione, non reggono; lo 'ih' di un documento dell'872 non è un ich ma un hic e i pretesi soprannomi germanici del 919 e del 1003 non sono affatto verosimili (lo Zanvidi citato in un documento di Chioggia, ad esempio, non si può intendere in altro modo che Gian-Vito). Come scrisse l'estensore del "Chronicon Salernitanum" nell'Italia del X secolo: "lingua todesca quod olim Longobardi loquebantur"
Per i termini "ussare", "anda", "renga", "aschio", "biasciare", "biscia", "fallace", "stecconire", "montone", "troga", "trogolo", "trogolaio", etc. si rimanda all'elenco appositamente realizzato. Unica, ma fondamentale, avvertenza che si dovrà tenere in giusta considerazione è questa: non tutti i termini germanici che potrete leggere nell'elenco dovranno essere assegnati al superstrato longobardo - franco - gotico; le lingue, come è noto, si parlano ed i vocaboli viaggiano. Un termine pistoiese che ricorda un termine tedesco può darsi, così, che non sia da addebitare ai Longobardi, ma ai tedeschi stessi ed essere giunto da noi usando le più varie strade... Per quanto poi attiene ai termini simili a quelli in uso nella lingua franca e rintracciati nella nostra ricerca andranno considerati altri due aspetti:
a) in primo luogo l'eccessivo ricorso, da parte degli studiosi, al francese e al provenzale per spiegarne la presenza in Italia. Troppo spesso, infatti, il francese e il provenzale sono stati utilizzati come utile scusa per spiegare i germanismi in italiano e ciò a scapito di una più seria indagine che ne riconoscesse l'origine diretta germanica (ad esempio la voce spiedo, riconosciuta longobarda dal Dizionario Etimologico Zanichelli a pagina 1180 dell'edizione minore 2004, viene presentata come prestito francese di un originale francone "speot" a pagina 1231 del medesimo Dizionario). Troppo spesso infatti si dimentica che è davvero difficile riconoscere in italiano (e nei suoi dialetti) l'epoca e l'origine di una parola germanica:
"La difficoltà di determinare l'epoca e l'origine delle parole germaniche è particolarmente grave in Francese e in Italiano, perché in queste due lingue, che più fortemente delle altre romanze hanno subito prolungati e vari influssi germanici, si presentano allo studioso parecchie possibilità che i criteri linguistici e storico - culturali non sempre sono sufficienti a far distinguere con sicurezza" (C. TAGLIAVINI, "Le origini delle lingue neolatine", Patron Editore, Bologna, 1999, p. 287);
"Nel lessico italiano rimangono tracce di tre sedimentazioni principali, dovute a ciascuna delle genti che abbiamo ricordate: ai Goti, ai Longobardi, ai Franchi. Non è sempre facile distinguere fra loro questi tre strati... [ad esempio] manca il modo di decidere in vari casi. Così - per citarne alcuni - buttare, greppia, spiare (e spia) potrebbero esser goti o franchi; lasca 'pesce d'acqua dolce della famiglia dei ciprinidi', schiatta, sghembo, gotici o longobardi (e lo stesso si dirà di forra); anca, arrostire germano - latini o longobardi o franchi; grappa 'ferro piegato ai due lati' (da cui aggrappare, grappolo) germano - latino o franco, meno probabilmente gotico" (A. CASTELLANI, "Grammatica storica della lingua italiana - introduzione", il Mulino, Bologna, 2001, pp. 54, 55)
b) che in ogni caso molti dei termini germanici effettivamente pervenuti nella lingua italiana, e nei nostri dialetti, per tramite del francese e dell'occitano sono da addebitare alla comune appartenenza del Nord Italia e, sia pure in misura minore, della Toscana all'Area Linguistica "Carlo Magno" (vedi il successivo paragrafo dedicato alla morfologia ed alla sintassi). A tutt'oggi, infatti, non ci pare sia stata offerta la necessaria attenzione alle parole del linguista Carlo Tagliavini:
"Per tutto il secolo IX e il secolo X, i rapporti fra le due parti del dominio franco, francese e italiana, sono intensissimi e sempre più abbondante è il numero di Franchi o Francesi in Italia. All'inizio del secolo XI, abbiamo poi le conquiste dei Normanni, ormai Francesi di lingua, nell'Italia meridionale e la formazione di un regno normanno nell'Italia meridionale e in Sicilia e nei secoli XI e XII imprese comuni franco-italiane sono rappresentate dalla prima e specialmente dalla seconda crociata... Il commercio con la Francia, già abbastanza fiorente ai tempi di Carlo Magno, si intensificò nei secoli successivi. Da tutte queste premesse storiche è pienamente comprensibile l'apporto linguistico del Galloromanzo all'Italiano, specialmente nel periodo delle origini" (C. TAGLIAVINI, "Le origini delle lingue neolatine" Patron Editore, Bologna, 1999, p. 333).
Noi riteniamo, pertanto, che sui prestiti germanici derivanti dalla lingua francese attestati dai più diversi Dizionari Etimologici andrebbe aperta una più ampia riflessione.
Dizionario dei germanismi e longobardismi
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QUATTRO ESEMPI DIALETTALI CON TERMINI LONGOBARDI O GERMANICI
1. lizzanese (provincia di Bologna ai confini con il pistoiese)
"gua' cl'albero comm' l'è gremmo ed cilesge" (fonte "E... viandare", rivista lizzanese, Anno I, n. 2, ottobre 2003, p 64)
2. Alto Appennino Pistoiese (ai confini con il bolognese)
"m'è venuto l'aschero delle more, son'ito giù per i grebicci e n'ho colte una gualca" (fonte G. JORI, "Alta Montagna Pistoiese", Diple Edizioni, Firenze, 2001, p. 19)
3. Montale Pistoiese (ai confini con il pratese)
"La lapida al comandò s'aprì e Menico infilziò dientro alla buca e vedde uno stanzone gremo d'ugni ben di Dio" (C. LAPUCCI, a cura di, "Fiabe toscane", Mondadori, Milano, 2002, p. XXIII).
4. Città di Pistoia
"stinchi bilinchi/ diavoli stinchi/ filundè d'un tedesco/ tira su 'l piede destro" (Tradizionale di Pistoia)
FITONOMI
Anche il nome locale di alcune piante ci pare possa tradire l'uso di parole di origine longobarda o germanica (anche se nessuna di queste probabilmente è mai stata battezzata da popolazioni germanico - barbariche). Origine certa per la "barba di becco" (longobardo bikk), una erba annuale (nome scientifico "tragopogon pratensis") a fiori gialli. Sempre tra i nomi di piante di origine longobarda abbiamo il pistoiese e altorenano "strozzichi" / "strozzighi" (dal longobardo strozza = gola) ad indicare una pianta spinosa che produce piccoli frutti aspri. Da krupfa kruppa potrebbe derivare "groppi" ad indicare una varietà di erica.
Più complessa è l'attribuzione del termine raggia (= rovo) in uso nell'Alto Reno e in alcune località dell'Alto Appennino pistoiese (es: Pracchia). Generalmente si fa discendere il termine raggia da una radice latina "radius" (= bastoncino), ma è assai più probabile che l'origine del termine sia da ricondursi al longobardo "razziam" (= graffiare)(III). A conferma della nostra ipotesi adduciamo la presenza di un chiaro toponimo latino - longobardo presente nei pressi di Villa di Piteccio: Spinarazza (nella nostra zona di interesse sono invero piuttosto numerosi i toponimi che presentano la forma "razza", ad esempio Razzinella a Granaglione). Evidentemente, nel corso dei secoli, in area pistoiese il valore di razza (raggia) per rovo è andato perduto, mantenendosi solo in aree marginali montane, mentre è rimasto inalterato nell'Alto Reno. Peraltro la voce rimane ben viva in altri dialetti toscani o toscaneggianti come nella regione maremmana, in Corsica (rada ad Aiaccio), nel grossetano (a Gavorrano razzo), nell'Isola del Giglio (spinarazolo), nel pisano (a Chiani raggia), etc. (cfr. G. Rohlfs, "Studi e ricerche su lingua e dialetti d'Italia", Sansoni, Firenze, 1997, p. 175).
Dalla stessa radice longobarda discendono anche i termini "razzare" (=grattare, raschiare) e i vocaboli treppiesi "razzadoia" (= arnese per raschiare il tagliere) e "razzinedo" (= terreno incolto dove non cresce vegetazione). A San Mommè e in qualche località rurale pistoiese sopravvive, con enorme difficoltà, un derivato di raggia forse acquisito dai boscaioli delle vicine realtà altorenane: razola (rovo con lunghe spine rovesciate).
Passando ai funghi segnaliamo i termini Spia e Grifo.: la Spia (voce di sicura origine germanica) indica a Frassignoni la cosiddetta Mazza di Tamburo mentre grifo (ovvero il barbagino) dovrebbe derivare da grifan (afferrare) per tramite di grinfia (= mano). Tra i possibili nomi di origine germanica non andrà dimenticato poi "Raigaggni" > chiodino (Armillaria Mellea) che, per Francesco Guccini, dovrebbe derivare dal gotico "wranks" col significato di "avviticchiarsi". Può darsi, così, che la voce, germanica, sia stata accolta anche dai longobardi. A tale proposito è bene precisare che, nonostante il fatto che la lingua longobarda ha partecipato alla cosiddetta "seconda Lautverschiebung" (a cui il gotico non ha partecipato), la sopravvivenza di alcuni elementi gotici nel longobardo fu facilitata dalla fusione dei goti stessi con i romani prima e i longobardi poi (cfr. C. TAGLIAVINI, "L'origine delle lingue neolatine", Patron Editore, Bologna, 1999, p. 290) (IV). In questa maniera si possono spiegare altri termini gotici sopravissuti nei dialetti locali come il lizzanese "struiccio" (= persona mingherlina) che secondo la rivista lizzanese "E... viandare" (n. 3/ 2004, p. 20) discende dal gotico "straupjan" (= soffregare)
Rimanendo in tema di parole derivate dal longobardo bikk si segnala la presenza anche di "saltabecco" (letteralmente "saltacapra") a significare la cavalletta, nonché nell'alta montagna pistoiese (es: Cutigliano) di "becca" ad indicare la pecora.Tornando in tema di piante segnaliamo, infine, la presenza di alcuni frutti non commestibili di arbusti (olivello spinoso, salsapariglia, caprifoglio) tutti genericamente indicati con la doppia dizione di "uva delle vipere" (variante "uva delle bisce") e "uva di San Giovanni". Rintracciare separatamente una delle due varianti in quanto tale non è molto significativo (sembra che l'espressione di "uva delle bisce" sia presente perfino in Sardegna) è invece assai significativo rintracciare la doppia dizione bisce (vipera) / San Giovanni, e ciò in relazione all'importanza che San Giovanni e le vipere (rispettivamente nella fase cristiana e pagana) ebbero nella cultura e e nella religione longobarda.
NOMI DI PERSONA
Ancora oggi sono utilizzati nomi di origine chiaramente alto - germanica come Edgardo, Ermengarda, Ermenegildo, Valfrido, Frida, Gerardo (Gherardo), Ugo, Valdo (dal longobardo Bald = ardito). Numerosi sono anche i cognomi di origine longobarda fra cui l'ormai raro "Gastaldi" oppure "Sibaldi". Altre volte, invece, la sopravvivenza del nome germanico è stata possibile solo a prezzo di una sovrapposizione del termine germanico con altri termini di derivazione latina e mediterranea; è il caso, ad esempio, di Hildjo (un nome proprio col significato di combattimento e dal quale derivano composti come Brunilde) che, attraverso una contaminazione col latino Ilia (fianchi) e col nome della città di Ilio (Troia), ha derivato due rari nomi pistoiesi: Ildo e Ilio. Nella "Historia Longobardorum" Paolo Diacono ricorda un Ildichis (I,21), un Ildeprando (VI, 54, 55) e un Ilderico (VI 55), mentre il più antico testo di poesia epica germanica a noi pervenuto è dedicato all'eroe Ildeprando (lo "Hildebrandslied" ambientato nella penisola italiana ai tempi di Odoacre che taluni attribuiscono proprio all'epica longobarda nonostante sia giunta a noi per tramite di una trasposizione in tedesco antico del IX secolo). Tornando al cognome Sibaldi sopra menzionato ricorderemo che lo stesso è tipico e quasi esclusivo di Pistoia (su 44 cognomi registrati nelle pagine bianche di Virgilio ben 24 sono in provincia di Pistoia e 28 in Toscana) e deriva dal nome di origine longobarda Sigebaldus di cui abbiamo un esempio nel Codice Diplomatico della Lombardia medievale sotto l'anno 1182 a Sartirana (PV): "...Nona pecia iacet in valle de Stagnono; coheret ei: de duabus partibus Sigebaldus de Lomello, a tercia Asclerius de Roglerio...", tracce di questa cognomizzazione le troviamo nell'Archivio storico comunale di San Miniato (PI) in atti dell'anno 1583 dove compare l'Ufficiale Benedetto Sibaldi da Montecatini (PT).
Ovviamente i nomi odierni sono solo la sopravvivenza di una ben più diffusa tradizione medioevale: le carte pistoiesi del medioevo sono piene di nomi longobardi (Gaidoald, Alhais, Ildebrand, etc., etc.), ricchissimi sono anche le testimonianze per l'Alto Reno con i vari Sigifrido, Agiki, Enghelberto, Tegrimo, Alboino, etc., etc. (in proposito si consiglia di leggere l'articolo di Paola Foschi "Note di onomastica pistoiese medioevale", pubblicato alle pagine 49 - 85 del Bullettino Storico Pistoiese Anno CV (2003) - Terza Serie - XXXVIII).
per sapere qualcosa sulla percentuale di nomi germanici nella popolazione dell'Alto Reno (la presenza di nomi germanici in un territorio in quanto tale non ha nulla a che fare con la germanicità della popolazione, tuttavia tanto è maggiore la presenza di nomi germanici in un territorio tanto più intensa sarà stata, su quello stesso territorio, l'influenza superstratista delle popolazioni germaniche)clicca qui
SANTI
Numerose sono le dedicazioni di Chiese a Santi cari alla popolazione longobarda (ad esempio i 'Santi Guerrieri' Michele e Giorgio). In particolare i Longobardi, accolsero con favore il culto per l'Arcangelo, contribuendo al suo sviluppo e diffusione, poiché questo santo, rappresentato come comandante delle milizie celesti e dominatore delle forze naturali e demoniache, ben si prestava a una trasposizione nella mitologia germanica: i Longobardi una volta convertiti al cristianesimo, sovrapposero e assimilarono la devozione per San Michele al culto per Odino/Wotan, il maggior dio del Walhalla.
Anche il culto dei Santi orientali,
attestato non solo dai rari San Potito (Alta Valle dell'Agna) e
Sant'Atanasio (all'Orsigna), ma anche da alcuni San Mommè (V) (la forma Mommè non deriva da
Tommaso,
come pensava il Rohlfs, ma da San Mamante di Cesarea), San Salvatore (a
Fontana Taona, in via Tomba di Catilina a Pistoia, etc.), Sant'Andrea, San
Tommaso (ad esempio a Costozza), si spiegano facilmente attraverso
l'azione dei missionari orientali nelle terre longobarde (vedi N.
Rauty, op. cit, pp. 84 ss.). Anche le prove documentali confermano la correttezza di questi indizi, ad esempio l'Abbazia di San Salvatore in Agna era già esistente nel 772 quando compare in un documento di permuta con il quale passa alle dirette dipendenze dell'abbazia di San Salvatore di Brescia
Relativamente al culto di Sant'Andrea
andrà ricordato come fino al XVIII secolo nella Chiesa cittadina
di Sant'Andrea era praticato il battesimo pentecostale secondo l'uso
delle chiese missionarie. Lo storico pistoiese Natale Rauti
suggerisce addirittura la possibilità che la Chiesa di
Sant'Andrea fu fondata nel VII seoclo da missioanri
orientali cattolici in contrapposizione al clero e al
vescovo della cattedrale che dovevano essere ariani (N. RAUTY,
"Il Regno Longobardo e Pistoia", Società Pistoiese di Storia
Patria, Pistoia, 2005, p. 246).
E sempre di origine missionaria in terra longobarda sono i culti dedicati Sant'Ilario e Sant'Agata. A Sant'Agata, una delle protettrici della città di Pistoia, è dedicata la Chiesa di Monteacuto. A Sant'Ilario è invece dedicata la Chiesa nei pressi di Monte di Badi. Per quest'ultima chiesa i documenti medioevali riportano il titolo nella forma di Sant'Ellero, secondo la pronuncia greca (cfr. AA.VV., "Torri: storia, tradizioni e cultura", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003, pp. 51 - 58). Ai Santi Orientali Quirico e Iulitta è dedicata una Chiesa a Castel di Casio. Diversi toponimi nelle valli della Bure prendono nome sempre da San Quirico (tra cui l'idronomo Fosso di San Quirico).(VI)
Anche le Chiese dedicate a San Bartolomeo (si pensi a quella famosissima di Spedaletto nell'Alta Valle del Limentra di Sambuca o a quella non meno celebre di Pistoia), San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista (si pensi a San Giovanni Fuoricivitas) e a San Martino (ad esempio l'oratorio nei pressi della Torraccia di Torri, la Badia di San Martino in Campo, la Chiesa di San Martino e San Jacopo di Uzzano) sono riconducibili alla grande devozione che i longobardi avevano per questi Santi (cfr. anche N. Rauty, Storia di Pistoia, vol. 1, p. 123)(VII).La presenza di toponimi dedicati a Santi cari alla popolazione longobarda può essere utile anche per rintracciare altri possibili toponimi di origine germanica. Ad esempio è assai noto che la presenza di chiese o toponimi dedicati a San Bartolomeo sono generalmente spie di una massiccia presenza longobarda (cfr. AA.VV., "La Sambuca Pistoiese", Società Pistoiese di Storia Patria - Nueter, Pistoia, 1992, p. 37), pertanto in presenza di un agiotoponimo o di una Chiesa (purché antica) con dedicazione a San Bartolomeo è lecito aspettarsi la presenza di altri toponimi germanici: è il caso Prunetta (frazione di Piteglio) che ha un interessante toponimo S. Bartholomeus super prata e una borgata Rifredo (un antroponimo chiaramente germanico a meno che non si immagini una origine da "Ri(o) Fred(d)o").
Rimanendo in tema
di Santi, ed anticipando delle riflessioni sulla
toponomastica locale, chi scrive è dell'avviso che dovrebbe
essere approfondito anche lo studio dei toponimi relativi ai monti. In
alcuni casi, infatti, possiamo trovarci a che fare con lasciti
direttamente longobardi o dei missionari orientali in terra longobarda.
E' il caso, ad esempio, di Poggetto San Biagio (altezza 750 m slm) la
cui attribuzione è sicuramente da ricondursi a un antico luogo
di culto cristiano che dovette sorgere al posto di un precedente fanum
sconsacrato (cfr. N. RAUTY in AA.VV., "Dizionario Toponomastico delle
Valli della Bure", op. cit., p. 26). Ancora Rauty riferendosi a questo
toponimo fa riferimento alla seguente opera: G. BOGNETTI, "I 'loca
sanctorum' e la storia della Chiesa nella terra dei Longobardi", in
IDEM, "Età longobarda", III, Milano, Giuffrè, 1996, pp.
303 - 345, ed in particolare pp. 309 - 310. E' peraltro di tutta evidenza, sulla base degli elementi documentali, che la presenza di numerose chiese (anche con esplicite dedicazioni a Santi orientali) è da attribuire a una fondazione longobardica: "Durante i regni di Liutprando (712-744), Rachis (744-749), Astolfo (749-756), Desiderio e Adelchi (756-773) i Longobardi risultano sparsi in tutto il territorio pianeggiante e colinare del pistoiese, e fanno costantemente capo alla città di Pistoia. In essa hanno fondato chiese e monasteria: S. Anastasio (8 settembre 748); S. Silvestro (9 luglio 764), sotto la regola di San Benedetto; S. Bartolomeo, fondato da Gaidoaldo, medico dei re Desiderio e Adelchi, prima del 9 luglio 764, anch'esso obbediente alla regola benedettina; S. Maria a Piunte, che già esisteva il 9 aprile 767; San Michele (in Forcole), ricordato per la prima volta in età carolingia (19 dicembre 775) come fondato da un longobardo, Auspert. Così pure nel territorio, dove risultano erette dai Longobardi la chiesa e monastero dei SS. Silvestro e Angelo a Monticunule prope flubio Neore, sotto la regola benedettina (già esistente il 9 luglio 764), la chiesa di S. Maria a Capezzana, oggi in territorio pratese (menzionata il 24 gennaio 776), la chiesa di San. Giorgio all'Ombrone (ricordata il 7 maggio 784)" (L. GAI, "Quarrata dalle origini all'età comunale", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 1986, p. 25)
TOPOGRAFIA
Anche la topografia manifesta chiari esempi del lascito longobardo - germanico (il che, ovviamente, non vuol dire che tutti i toponimi con etimologia germanica siano da attribuire ad una diretta discendenza longobarda, franca o gotica), ad esempio:
Da Gahagi (bosco sacro, bandita, recinto) abbiamo Gaggio Montano, Gaggio di Treppio (Comune di Sambuca Pistoiese), Lagacci di Sambuca Pistoiese (da La Gahagi), e, nel Pistoiese, Cafaggio presso la Chiesa di San Michele ad Agliana. Sempre da una radice Gahagi deriva per Mastrelli il toponimo Biancaggio (> Pian di Caggio).
Da una radice germanica latinizzata del tipo *tupa (vedi C. TAGLIAVINI, Le origini delle lingue neolatine", Patron, Bologna, 1999, p. 309) oppure da *tupp-az (cfr. N. FRANCOVICH ONESTI, "Filologia Germanica", Carocci, Roma, 2002, p. 149) derivano toponimi del tipo Toppoli e Topolini (quest'ultimo riconosciuto per le Valli della Bure da Mastrelli). Sempre da *tupa deriva la voce toscana e pistoiese toppo ad indicare il ceppo e il tronco d'albero.
Da una parola germanica affine al moderno pflaster abbiamo toponimi come Lastra Bruciata (in Comune di Porretta Terme ed altri). Secondo lo storico Muratori, infatti, la parola "lastra" deve essere di origine germanica ("Potrebbe mai darsi che da lata strata abbreviato fosse nato lastra? A me nondimeno sembra più verisimile l’origine Tedesca").
Da Trog abbiamo Fonte ai Troghi sia nell'Alta Val dell'Agna che Presso Fontana Taona (per alcuni anche Taona deriva da un antroponimo longobardo del tipo Taodolfo o Taodelperto). Ancora dal longobardo Trog abbiamo 'Trogoni' in Comune di Granglione e numerosi altri toponimi sia al di quà che al di là del crinale appenninico (ad esempio il toponimo "i Troghi" e l'idronomo "Forra dei Troghi" nei pressi di Pian di Giuliano nell'Alta Valle dell'Ombrone e "Fosso dei Trogoli" in territorio sambucano).
Da Wald (bosco, selva) abbiamo Valdi, tra San Mommè e la Collina.
Dall'onomastico Ald abbiamo Cataldera sempre nei pressi di San Mommè.
Da Behhari (bicchiere) abbiamo Bicchierino presso il Vizzero e il Bicchiere presso l'Orsigna.
Da Watha (guardia) abbiamo nel pistoiese La Gatta, Gatta e Gattaro in Comune di Camugnano e, nei pressi di Borgo Capanne (fraz. di Granaglione), il Gatto.
Da Warnen (guardarsi) abbiamo per il Benati Granaglione (in dialetto locale "Garnaion")(VIII).Dalla stessa radice germanica si ha anche il vocabolo pistoiese "guarnigione" usato per indicare la custodia di un fondo rustico fatta dal guardabosco.
Da Berin (orso) abbiamo vari antrotoponimi quali Cà Berna (da Bernardini) presso Lizzano, Casa Bernardoni presso la Sambuca, Casone Bernoro etc.
Da Luk (incerto / vuoto) abbiamo un Sasso del Locco nei pressi di Piteccio, un Cason dei Locchi nel Comune di Granaglione ed altri toponimi.
Da Sunder (isolato) abbiamo Sondine nei pressi di Lupiciano. In alternativa è possibile una origine anche dall'aggettivo derivato "sundriale".
Da Furha i vari For, Fora, Foroni, Forra, etc. Sempre da Furha si hanno toponimi come Falabuia (per Mastrelli proviene da lgb. "Furha" + lat. "burius"), Frassignoni e Framerigola (dove "fra" potrebbe essere, in concordanza col Mastrelli, una deformazione di "forra" in protonia") coi significati di Forra Buia (vedi un analogo fosso della Forra Buia nei pressi di Pistoia), Forra di Amerigo, Forra Seniroris.
Da una radice skalja presente anche in gotico si ha la località di Lo Scaglieri (un gruppo di campi in stato di abbandono posti ad ovest di Forra Al Pitta) .
Da Skina abbiamo "Schiena d'Asino" al Vizzero (in provincia di Bologna, ma presso Pracchia (PT)).
Da Wora si hanno diversi Gora, Goraio, Gorella e numerosi altri derivati (la prima attestazione del termine in area pistoiese risale al 726 ed è relativa ad un fossato derivato dal torrente Brana). A livello locale abbiamo rintracciato (ad esempio a Pavana) il diminutivo gorello utilizzato come termine di uso comune per indicare piccoli fossi.
Da Busk abbiamo i vari Boschi, Bosco, Boscacci, Boscaccio, etc.
Da Wad + latino "vadum" abbiamo Guado nelle Valli della Bura e altri analoghi toponimi.
Da Wazzer (acqua) invece si ha Guazzatoio nei pressi di Pistoia nonché altri toponimi come il Fosso del Guazzatoio. Dalla stessa parola germanica deriva il termine locale "guazza" a indicare il bagnato, specie da rugiada nonché "sguazzare" (= agitarsi nell'acqua).
Da Lama (secondo Paolo Diacono si tratta di voce longobarda col significato di stagno / ristagno di acqua(IX)) abbiamo l'idronomo fosso della Lama nei pressi della Piana delle Fabbricacce e alcuni toponimi Lama (un prato, un torrente e una fontana) nei pressi di Pavana Pistoiese, un podere La Lama in Comune di San Marcello Pistoiese, etc. Al tipo Lama appartiene anche il toponimo La Macava (nei pressi di Bardalone) che deve la sua forma attuale a un fenomeno di aplologia (originale La Lama Cava), nonché toponimi come La Miserre (con discrezion e dell'articolo), Ramiserre (con rotacismo), Lambore, Lomoscina, Ramoscina (tutti riferiti ad acquitrini, sorgenti, corsi d'acqua). A radice non germanica, ma anaria sono da ricondursi idronomi come Lima (probabilmente relitto ligure) e Limentra (per Mastrelli e Pieri derivano da un antroponimo etrusco Armena).
Per il Rauty (op. cit., pp. 120, 137) sono longobardi anche Spannarecchio (presso Pistoia), Scaffaiolo (il lago vicino al Corno), Scaffolino, Cafaggiolo e Catrello (nel pistoiese). Per la voce Scaffolino, infatti, non è difficile rintracciare l'etimo nel longobardo "staffal" (fondamento, palo di confine, cippo) con scambio di "st" in "sc" che risulta attestato dal Pellegrini in Toscana. Quanto agli altri termini basterà pensare a spanna, gahagi, gatero. Diverso è, invece, il caso di Scaffaiolo che potrebbe derivare da staffal come attestato da Rauty e da molti altri studiosi, ma che tuttavia potrebbe derivare da un latino scapha (greco scafe > conca) attestato in documenti medioevali anche nel senso di condotta, fossa. Il nome Scaffaiolo, in analogia ad altri toponimi italiani come il pescarese Scafa, potrebbe così designare non tanto un luogo di confine (lgb staffal), ma un luogo ove si raccolgono le acque.
Per il Zagnoni Scolca, nei pressi di Granaglione, è di origine germanica (vedi "Dizionario Toponomastico del Comune di Granaglione" a pagina 24) e, infatti, abbiamo il gotico e longobardo "sculca" col significato di 'posto di guardia' (si ricordi che l'Alto Reno era abitato da arimannie longobarde che si dovevano contrapporre ai bizantini della media valle del Reno).
Di particolare interesse toponimi del tipo Panchetti o Panchine (ad esempio "i Panchetti" nei pressi di Acquifredola) che sono derivati dal longobardo pank / bank, qui nel valore di "terrazzamenti". Il toponimo Le Panche, invece, è da ricondursi a una parola germanica con radice *bank (= banco di terra).
Anche certi antroponimi (ad esempio Aldaio e Campaldaio presso Treppio e Torri (dall'antrop. Aldhari)) tradiscono una origine germanica. E Germanico è il toponimo Calinfranco (presso San Pellegrino al Cassero, fraz. di Sambuca Pistoiese) così come germanico è l'etimo dei vari toponimi Borgo (burgs > villaggio, paese anche se persiste il dubbio di una etimologia greca da πύργος). Alcuni toponimi tuttavia dimostrano quanto sia facile cadere in errore nella ricerca dei lasciti germanici. Ad esempio in comune di Lizzano in Belvedere troviamo un "Burgon di Gatti" che potrebbe essere tradotto, all'incirca, "Paese con postazione di guardia", ma questa traduzione è sbagliata dato che "burgon" nel dialetto locale indica l'albero cavo del castagno. Il toponimo Burgon di Gatti semplicemente indica un albero cavo di castagno che appartenne a un qualche signor "Gatti".
Secondo il celebre professore Carlo Alberto Mastrelli dell'Università di Firenze (cfr. AA.VV., "Le Valli della Sambuca", Sambuca Pistoiese, 1997) anche Treppio potrebbe derivare da un longobardo Trippon (calpestare). L'interpretazione di Mastrelli ribalta autorevolmente l'etimologia generalmente proposta che vuole Treppio collegato al latino trivium (incrocio di tre strade)
E poi...
Alcuni toponimi del tipo Sala (oltre al già citato La Sala nel centro urbano di Pistoia ricordiamo anche un Sala nelle Valli della Bure). Per il significato preciso dei due toponimi si rimanda alla voce dedicata a "sala" nel Dizionario appositamente realizzato.
Vizzero (frazione di Granaglione): per il Mastrelli la voce deriva dal longobardo wizza > "bosco comunale con diritti esclusivi". Nella zona di Vizzero, Granaglione e Frassignoni erano presenti numerose e vaste "bandite", ovvero territori comunali dove erano esercitati alcuni diritti esclusivi (ad esempio il legnatico).
Gualazza (presso Torri): la prima parte del toponimo (un boschetto) potrebbe derivare dal longobardo wald con trattamento fonetico di tipo italiano (es: l'italiano guerra viene dal francone werra) con intrusione di guazza.
Valchiera di Lentula (un antico opificio presso Torri): dal tedesco antico walkan. E sempre da walkan si ha Valtiera nei pressi di Torri.
Valtanghera (in comune di Sambuca Pistoiese): dal longobardo "thingare" (rendere legalmente libero).
Greglio (nei pressi di Vigo): dal longobardo grellgo (cfr. P. GUIDOTTI, "Il Camugnanese", Clueb, Bologna, 1985, p. 34)
Pellegrinesca (in comune di Sambuca Pistoiese): dall'antroponimo Pellegrinus + suffisso germanico -iska. Con suffisso -iska troviamo anche alcuni antrotoponimi come Gatteschi, Rio dei Gatteschi e Fosso dei Gatteschi che presentano lo stesso suffisso germanico -iska.
Fora di Bernio (nei pressi di Torri)
potrebbe essere collegato a wern (con passaggio di tipo V > B tipico
di queste zone). Nella vicina provincia di Prato esiste un comune di
Vernio (per Vernio tuttavia è da tenere presente anche il personale latino Vernius).
Batoni (nell'Alta Valle dell'Ombrone
Pistoiese) da un onomastico Bauto, -onis documentato proprio nella
Valle dell'Ombrone in una carta del periodo longobardo (5 febbraio
767): "signum manus Bautonis de Umbrone)
Ancora di origine longobarda potrebbero essere le varie "Docciola" che troviamo sia nel pistoiese che nell'Alto Reno (cfr. N. Rauty, Storia di Pistoia, vol. 1, p. 120 - contro questa ipotesi e a favore di una origine dai liguri cfr. Ibid., p. 12).
Attribuibile ai Longobardi o ai Goti
è poi il toponimo Valleriana nella Vallata del Pescia. Secondo
il parere di Ansaldi, riportato da Rauty nella sua opera sul Regno
longobardo e Pistoia (Pistoia 2005, p. 267), il toponimo Valleriana
può essere inteso come 'valle ariana' e quindi come
località abitata da popolazioni di religione ariana come i goti
o i longobardi prima della conversione.
Sempre ai longobardi potranno essere attribuiti i molti toponimi 'settimanici' presenti nel nostro territorio: "Gli stanziamenti longobardi in Toscana dovettero essere abbastanza fitti: ciò risulta sia dai ritrovamenti archeologici sia dalla toponomastica, in particolare dalla frequenza con cui si trovano composizioni del tipo detto dal Gamillscheg 'settimanico' (sostantivo latino + personale germanico), come Camaldoli < Campo Maldoli) sia infine della notevole quantità di germanismi riferibili a questo strato che compaiono nella lingua letteraria" (A. CASTELLANI, "Gramatica storica della lingua italiana - introduzione", il Mulino, Bologna, 2001, pp. 70 - 71)
Anche alcuni microtoponimi dell'Appennino pistoiese apparentemente "italiani",come Fontana del Re e Fonte della Regina (quest'ultimo nei pressi della Collina), prendono origine da antichi possessi regi longobardi (N. Rauty, op. cit., p. 76) ed in passato questa toponomastica era ancora più ricca (es: 'Silvia Regis' documentata in una pergamena del 1155 localizzabile sul rilievo montuoso ad est di Stabiazzoni), tanto ricca che Amedeo Benati è dell'avviso che le molte leggende presenti nelle nostre montagne relative a Regine (Regina di Silla, Regina di Sucida, etc.) siano tutte da ricondurre alla presenza in età longobarda di numerosi possedimenti regi in queste zone (cfr. Il Carrobbio, n. 2 (1976), p. 44). Anche i vari toponimi del tipo Porcile (ad esempio quello sopra Guzzano) indicano località di grandi allevamenti longobardi di maiali. Sempre da questi animali (fondamentale elemento per l'economia longobarda(X)) hanno la loro specificazione il sambucano Fosso de' Riporcini (è tuttavia possibile un'origine dal fungo boletus edulis) e Santa Maria de Porcolis, cioè la medioevale Santa Maria dei Porcellini, localizzabile,forse, a Piederla di Bargi. Alla stessa categoria dei toponimi solo apparentemente "italiani" appartiene l'originale toponimo "Bosco della Maria di Fofo" che nasconde attraverso una forma ipocoristica il germanico "Adolfo" (Adal + wulf > lupo nobile).
E, sia pure con maggiore perplessità, si segnalano anche i due toponimi lizzanesi di "La Corona" e "Cà di Guglielmi". Secondo l'avvocato Filippi (ispiratore e anima della rivista lizzanese "La Musola") il toponimo "La Corona" sarebbe l'accrescitivo di gora (longobardo "wora") giustificabile attraverso la presenza in zona di un vasto acquitrino detto "I Lagoni". Il toponimo Guglielmi, invece, si riconduce all'antroponimo Guglielmo (da will = volontà e helm = elmo) (XI).Anche alcuni dei toponimi del tipo "Lagoni" presenti nell'Alto Reno e nel pistoiese (si tratta di località che non ospitano alcun lago ma, al più acquitrini) può darsi possano derivare da un gotico "lagus" col significato di acqua (al tipo lagus potrebbe ricondursi anche Lagacci anche se ci pare più ragionevole una origine da gahagi). Secondo lo storico pistoiese del diritto Luigi Chiappelli (si veda la sua "Storia di Pistoia nell'alto Medioevo", 1929, 1932) Brandeglio, nome della località dove sono le sorgenti del torrente Vincio, detto appunto di Brandeglio, deriverebbe dalla voce gotica 'branda', che significava 'fonte'. Secondo altri, ancora, il torrente e il comune di Pescia paiono invece prendere il nome da una parola longobarda col significato di fiume / torrente: "La città prese il nome dal fiume, storpiando alla latina una parola longobarda, che appunto voleva dire fiume" (http://www.mercatotoscano.it/links.asp?category=862).
Delle numerose "terrae Widingae" pistoiesi sopravvivono ancora oggi alcuni toponimi quali Casalguidi nei pressi di Serravalle Pistoiese.
La celebre "Porta Franca" (nell'Orsigna Pistoiese), al contrario, dovrebbe essere un adattamento di un più antico "Porta Gallia" (M. Panconesi, "Presente e Passato tra gli Appennini", Cento, 2003, p. 119). Lo stesso Panconesi c'informa, tuttavia, di un'altra parola in uso tra Pracchia e l'Orsigna (e, aggiungiamo noi, in tutto l'Alto Reno) di origine longobarda: grotto nel senso di "terrazzamenti di terreno creati sui fianchi delle valli per potere effettuare le coltivazioni" (Ibid., p. 120). Grotto è usato anche per numerosi toponimi della zona.
Altri toponimi, oggi dimenticati dai residenti e ricordati solo in documenti antichi, testimoniano la presenza - in passato - di un ancor più ricco patrimonio toponomastico di tipo germanico. A titolo di esempio ricordiamo "Stoccaglieri": "Alla metà del XVIII secolo, l'Opera di San Giovanni di Valdibure possiede 'un pezzo di terra lavorativa e querciata in località detta Stoccaglieri'" (AA.VV, "Dizionario toponomastico delle Valli della Bure", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 1999, p. 176). Vale la pena ricordare che il vocabolo germanico stok indica il fusto degli alberi, toponimo quindi perfetto per un pezzo di terra coltivato a querceto!
Altri tre toponimi di origine germanica menzionati per l'area alto - appenninica pistoiese da Giancarlo Jori sono Chiappore, Carlatico e Guaime. La forma "Chiappore", peraltro rintracciabile in altre località pistoiesi, presenta anche dei derivati come Chiapporato (località in Comune di Camugnano). Secondo Laura Battistini "i toponimi Chiapporato in Val Limentra e Chiappore in Val di Bure documentano una via di comunicazione altomedioevale" (L. Battistini, "Lentula", Editografica Rastignano, Rastignano, 2000, p. 17) evidentemente di origine longobarda. E di origine longobarda potrebbero essere diversi percorsi medioevali alcuni dei quali ancora in uso. Quanto a Carlatico è bene ricordare come alcuni hanno visto in Carratica (Via di Pistoia) un originale Carlatica.
Per le Valli delle Bure il già ricordato storico pistoiese Natale Rauty individua come toponimi di origine germanica: Cauccio (con suffisso germanico -tsch) e Sardigna. E per lo stesso Rauty "anche toponimi come Corte (curtis) e Chiuso (terra cum clausura) potrebbero riferirsi a un ordinamento agrario del periodo longobardo" (N. RAUTY in AA.VV., "Dizionario toponomastico delle Valli della Bure", Società Pistoiese di Storia Patria, 1999, p. 26).
A temi germanici, ovviamente, andranno ricondotti alcuni toponimi relativi ad aggettivi che indicano colori che la lingua italiana, e i dialetti locali, hanno adottato in età altomedioevale dalle lingue germaniche (es: i Casoni Bianchi in comune di Granaglione da un tema blank > bianco).
In alcuni casi è invece estremamente difficile l'attribuzione germanica ai toponimi locali: l'idronomo Faldo (che il Mastrelli considera antico e assai problematico) è stato da qualcuno collegato con il longobardo feld (campo), ma una tale attribuzione lascia qualche perplessità considerato che anche in età medioevale il territorio di Frassignoni doveva apparire estesamente boscato (una possibile alternativa in ambito germanico potrebbe rivelarsi in una voce affine al franco "falda" (piega) usata in italiano anche per indicare le pendici di un monte). Il germanico feld sopravvive tuttavia in altri interessanti toponimi come Canfadi nei pressi di Ponte della Venturina (in un documento del '700 il toponimo è riportato nella forma Canfaldo che lascia presumere un originario campofaldo).
Tra i toponimi di attribuzione incerta,ma difficilmente germanica andrà attribuito Lascheta (con articolo determinativo agglutinato) a destra della Bure di Baggio. Per Lascheta, infatti, sarà più ragionevole cercare l'origine del toponimo in un latino aesc(u)lus (ischio, rovere) piuttosto che in un germanico *aski (frassino). E alla stessa stregua andrà considerato l'etimo alla base del nome dei piccoli abitati di Vinci nei pressi della Forra dei Gai e Vinci lungo la riva sinistra della Forra del Baco (anziché un germanico Winke sarà più probabile un latino Vinculum ad indicare il vinchio).
Talvolta sono toponimi di tipo lessicalmente latino a testimoniare una possibile origine germanica: è il caso, ad esempio, di Luccaiola nei pressi di Granaglione e di Lucaia nei pressi di Gello di Pescia che derivano dal latino Lucus (bosco sacro). I lucus erano una caratteristica di tutti i popoli germani come ben ci testimonia lo storico romano Tacito nella sua opera "Germania" ("De origine et situ germanorum liber").
Per concludere riportiamo due presunti toponimi d'origine longobarda e germanica citati nella "Guida di Porretta e dintorni" di Demetrio Lorenzini (Zanichelli, Bologna, 1910): Farnè da Fara, termine al quale il Lorenzini attribuisce il significato di passaggio(p. 21) e Reno da un gotico Rinno o teutonico Rinnum (pp. 20, 21).
Circa questo toponimo si precisa in primo che luogo che Fara in lingua longobarda non significa passaggio, ma stirpe (anche se riteniamo legittimo collegare l'etimo originario del termine longobardo "fara" con l'idea del movimento rappresentata dalle forme andare / marciare presenti in lingue come il tedesco (fahren) e l'islandese (ath fara)).In ogni caso è assai improbabile che il toponimo Farnè derivi dal longobardo Fara (stirpe), dato che, normalmente, questo vocabolo si mantiene inalterato nella toponomastica (vedi Fara Novarese o, in Abruzzo, Fara Filiorum Petri).Da parte nostra propendiamo per un'origine da Farneto, luogo delle farnie, delle querce.
Del tutto improponibile, poi, l'ipotesi germanica per il nome del fiume Reno dato che, al contrario, risulta una testimonianza linguistica dei popoli gallici della penisola; scrive, in proposito, il Rohlfs:
"Il noto gallico renos 'fiume' sopravvive nel nome di alcuni fiumi e ruscelli nella forma Reno (Lombardia, Veneto, Toscana). Uno di questi fiumi con nome Reno nasce nelle vicinanze di Pistoia, passa vicino a Bologna, e sfocia a nord di Ravenna nel mare adriatico" (G. Rohlfs, "Studi e ricerche su lingua e dialetti d'Italia", Sansoni Editore, Firenze, 1997, p. 51).
La pur pregevole guida del Lorenzini nel campo della toponomastica è, peraltro, del tutto inattendibile, proponendo ipotesi a dir poco fantasiose: Pavana è parola sanscrita (p. 22), Bargi e Baragazza sono nomi fenici ed etiopi (p. 22), Appennino prende nome dal dio Api - Osiride (p. 21), e viandare...
Un elenco di altri toponimi longobardi e germanici (trovare un toponimo di tipo germanico o longobardo non vuole dire necessariamente che lo stesso toponimo sia un lascito diretto di Longobardi, Goti o Franchi) in Alto Reno e nel pistoiese cliccando qui
per vedere la toponomastica germanica in area urbana pistoiese clicca qui
BIZANTINISMI
Un indizio indiretto dell'importanza della presenza nel pistoiese e nell'Alto Reno delle popolazioni longobarde e germaniche è rappresentato dalla scarsissima presenza di relitti linguistici e toponomastici greco - bizantini.
Lessico
Per quanto attiene il lessico dobbiamo distinguere i bizantinismi diffusi sull'intero territorio nazionale dai bizantinismi specifici della nostra area d'interesse.
BIZANTINISMI PECULIARI ALLA NOSTRA AREA D'INTERESSE Per l'Alto Reno si registrano
pochissimi termini di origine greco - bizantina (quasi tutti importati
dal dialetto bolognese come calcedro o ebbio), in area pistoiese i
termini di origine bizantini sono ancora più rari (uno delle
rare eccezioni è "scareggio" col significato di cosa brutta e
ripugnante). Nel caso di termini presenti in area pistoiese molto
spesso si evidenzia un contenuto astratto e / o morale (l'esempio di
scareggio è indicativo in proposito) che ci induce a ritenerli
non tanto l'esito della brevissima dominazione bizantina, ma
dell'azione dei missionari orientali nella Tuscia Longobarda(XII). Si può anzi sostenere che
nel complesso il numero di parole d'origine greco bizantina non sia
superiore a quello proveniente dalle lingue in uso tra popolazioni che
nulla hanno avuto a che fare con la nostra terra come gli arabi:
di origine araba ad esempio è la parola burgon che a Lizzano in
Belvedere e in Alto Reno in genere designa i castagni vuoti
(burgon > arabo ' burg' col significato di 'torre').
BIZANTINISMI DIFFUSI NELL'INTERA PENISOLA ITALIANA A questa categoria rispondono termini quali botro, smeriglio, prezzemolo, sedano, ganascia, mastello, etc. Circa la presenza di questi termini nel nostro territorio valgono le parole di Arrigo Castellani: "E' da presumere che tale influsso - peraltro decisamente meno intenso di quello germanico -, per la Toscana d'età longobarda (una Toscana confinante da ogni lato, tranne l'Appennino occidentale, con territori dell'impero), provenisse principalmente dall'Esarcato e dalla Pentapoli" (A. CASTELLANI, "Grammatica storica della lingua italiana", il Mulino, Bologna, 2001, p.149) Questa categoria di bizantinismi accoglie, pertanto, i vocaboli che gli stessi longobardi decisero di adottare
Toponomastica
Pochi gli esempi di toponomastica da attribuire ad una presenza greco - bizantina. Alcuni Castello, Castellina, Castellare, Castiglione che non possono essere riferiti all'età feudale o a quella comunale (cfr. N. RAUTY, "Storia di Pistoia", vol. I, Firenze, Le Monnier, 1988, p. 47) e alcuni "Filetta", "Filettole" (N. RAUTY, Op. cit., p. 47). Al tipo "Filetta" appartiene un antico toponimo (oggi scomparso) riportato in un estimo del 1586 nel territorio dell'attuale Comune di Granaglione (cfr. AA.VV., "Torri: Storia, tradizioni, cultura", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003, p. 172). Secondo Lucia Gai (L. Gai, "Quarrata dalle origini all'età comunali", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 1986, p. 22), tuttavia, anche il toponimo Pilli potrebbe essere d'origine bizantina e collegato al vocabolo Pylai (porte, valico, passaggio obbligato).
Agiotoponomastica
Come ricordato nel paragrafo dedicato ai Santi pressoché nulla è attribuibile ai bizantini con l'eccezione, stando alle tradizioni popolari, della sola Chiesa di San Mamante di Cesarea a Lizzano in Belvedere. Attribuzione peraltro quantomeno dubbia, non solo perché gli storici sono giunti alla conclusione che a Lizzano fosse presente una arimannia longobarda (cfr. R. ZAGNONI, "Il Medioevo nella montagna tosco-bolognese", Gruppo di studi Alta Val del Reno - Nueter, Porretta Terme, 2004, p. 102), ma soprattutto perché i i documenti storici attribuiscono la fondazione di questa chiesa proprio ai Longobardi:
"Dalla lettura di questo documento apprendiamo che San Mamante era stato costruita dallo stesso Anselmo poco tempo dopo che suo cognato Astolfo, Re dei Longobardi, gli aveva donato la Massa di Lizzano con i suoi villaggi, cioè poco dopo la metà del secolo VIII" (A. ANTILOPI - B. HOMES - R. ZAGNONI, "Il Romanico Appennico", Nueter, Porretta Terme, 2000, p. 72).
"e proprio lui (Anselmo) aveva costruito quella chiesa, insieme agli abitanti di quel luogo... l'abate Anselmo produsse il decreto del già nominato Re Astolfo, contenete l'assegnazione al monastero del sopraddetto paese e di tutte le sue pertinenze" (brano tratto dal Placito di Carlo Magno del 29 maggio 801 e pubblicato su "La Musola", n. 1 anno 1967).
Peraltro una delle prime raccolte sulla vita di San Mamante di Cesarea (e sicuramente la più illustre) risulta opera di un monaco dal nome piuttosto germanico: Walahfrido Strabone(Walahfrido Strabone: Vita S. Mammae). Quello Strabone che viene considerato uno dei principali artefici della poetica altocarolingia e la cui grazia può essere apprezzata nel passo seguente:
"At mihi adhuc dubitatio nominis huius:
Nam Mammas Mammae, et Mammes Mammetis habetur;
Et Mammes Mammis scriptum liquere priores"
ovvero:
"Mi resta però l'incertezza del suo nome:
si ha infatti Mammas Mammae, e Mammes Mammetis;
mentre i più antichi scrissero Mammes Mammis"
(Walahfrido Strabone in vol. II - Poetae latini aevi Carolini - Monumenta Germaniae Historica, Berlin, 1884, pp. 275 - 296).
L'intitolazione di una Chiesa ad un santo orientale è un fatto comune (osiamo dire banale) attribuibile in buona parte alla già menzionata massiccia presenza di missionari orientali tra i barbari germanici (cfr. anche R. ZAGNONI, op. cit., pp. 100 - 101).
Arte e Architettura
Nulla
rimane nel campo
dell'arte e
dell'architettura del dominio bizantino. Talvolta la tradizione
popolare vuole attribuire ai bizantini il piccolo delubro di Lizzano
perché simile alle rotonde bizantine. Le informazioni di
natura storica tuttavia (vedi anche la testimonianza di Anselmo
succitata) dimostrano in maniera indubbia che il cosiddetto "delubro"
non è altro che il battistero della Chiesa di fondazione
longobarda, risalente al VIII secolo (anche il nome "delubro", con il
quale tradizionalmente viene indicato l'edificio, testimonia
etimologicamente il rapporto con il battistero: delubrum > de
(particella pleonastica) + luo (lavo) + brum (desinenza che indica un
bacino come in lavabrum)). Le somiglianze rintracciate con
l'arte bizantina di Ravenna non devono peraltro stupire dato che i
Longobardi, nella loro arte sacra, hanno sempre cercato di ricreare il
linguaggio dei monumenti paleocristiani e bizantini.
il battistero longobardo di lizzano
Conclusioni sui bizantinismi
I dati raccolti sui bizantinismi ci inducono, così, a rafforzare la nostra convinzione che la presenza germanico - longobarda è stata determinante per la cultura pistoiese e dell'Alto Reno mentre quella bizantina del tutto accidentale.
FONETICA, MORFOLOGIA E SINTASSI
E' assai interessante rilevare che molto spesso i toponimi germanici con "W" iniziale non subiscono il trattamento di trasformazione in "GU" tipico delle parole germaniche adottate da popolazioni italiane. Secondo il Guarnerio (P.E. Guarnerio, "Fonologia Romanza", Cisalpino Goliardica, Reprint Hoepli, Milano, 1978, § 377) le forme "V" sono da considerarsi un fenomeno di conservazione dell'antico suono germanico (W > V). Più incerto il Rohlfs (G. Rohlfs, "Grammatica Storica della Lingua italiana e dei suoi dialetti - Fonologia", Einaudi, Torino, 1999, § 168) che, tuttavia, arriva a proporre l'ipotesi per cui le forme "V" sono un ulteriore evoluzione del "GU" italico (W > GU > V). A modesto avviso di chi scrive si ritiene più ragionevole l'ipotesi del Guarnerio non solo perché l'ipotesi di Rohlfs è basata su un modesto elemento documentale (in un antico documento Montevarchi è scritto Monteguarchi che, ad avviso di chi scrive, testimonia semplicemente un tentativo - fallito - di latinizzare in GU la forma germanica con W), non solo perché contraddittoria col principio dell'economia logica e linguistica ("entia non sun multiplicanda praeter necessitatem" volendo citare lo scolastico rasoio di Occam), ma anche perché in Alto Reno e nel pistoiese si assiste ad evoluzioni dirette di W in B (Wern > Vernio > Bernio). Inoltre è abbastanza risaputo che la toponomastica è più conservativa della lingua comune (ad esempio nella località di Frassignoni, dove da tempo si parla un dialetto pistoiese appenninico, presenta ancora nella toponomastica tracce dell'antica situazione linguistica che prevedeva la sonorizzazione di K, T, P e la degeminazione consonantica: Scovedino anziché Scopettino).
Un altro fenomeno fonetico, presente nel pistoiese e in alcune zone dell'Alto Reno (es: Treppio), dovuto al superstrato germanico è il passaggio di "V" in "G" in parole come "golpe", "gomito", "gomere" o "golo" al posto di "volpe", "vomito", "vomere" e "volo" (cfr. F.d'Ovidio - W. Meyer Lubke, "Grammatica Storica della lingua e dei dialetti italiani", Hoepli, Milano, 2000, p. 110). Alla stessa stregua il montalese "guasto" (= cane rabbioso) mostra l'interessante fenomeno di ipercorrettismo W > GU dato che lessicalmente il termine "guasto" non deriva da una parola germanica, ma dal latino "vastus" (=devastato). A tale proposito è assai interessante il seguente passo di Gerhard Rohlfs:
"In qualche parola "v" è stata trattata come la "w" germanica, a volte sotto l'influsso della parola germanica di simile conformità, a volte invece perché dai Romani fu ripresa quella stessa pronuncia che i Germani usavano per le parole romane. Per la lingua letteraria appartengono a questo tipo guastare (vastare: germ. wostjan), guado (vadum: germ. wad), guaina (vagina), a cui si aggiungono ulteriori esempi presi dai dialetti: veneziano, veronese, trentino guida 'vite' (vitem), umbro guerre, romanesco e marchigiano guerro 'verro'" (G. ROHLFS, "Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti - Fonetica", § 167, Torino, 1999, p. 230).
Sempre in ambito fonetico andrà assegnato ai lasciti germanici anche il nesso 'sk' (cfr. P. D'ACHILLE, "Breve grammatica storica dell'italiano", Carocci, Roma, 2003, p. 60). In condizioni normali, infatti, il nesso sk seguito da vocale palatale ha dato luogo ad una fricativa prepalatale sorda (piscem > pesce), ma nel caso di voci di origine germanica il nesso sk si è conservato (skerzon > scherzare). Il nesso sk germanico peraltro ha assorbito per palatizzazione anche i nessi st e sl (slahta > schiatta, staffal > Scaffaiolo - cfr. anche G: ROHLFS, "Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti - Fonetica", § 190, Einaudi, Torino, 1999, p. 261).
A tale proposito è sempre il Rohlfs a scrivere che:
"Davanti a vocali palatali sk è diventato sc: cfr. il toscano scena, scintilla, sciatico, scilla; il napoletano scella; il calabrese scifu. I prestiti della lingua longobarda tendono, per solito, a conservare l'antico sk: per esempio schiena, scherzare, schifo (skif); veneziano schinco; parmigiano schida (skid); lombardo schirpa (corredo); dall'altra parte il calabrese scirpu 'mobile della casa' (skerpa). Il toscano scheggia (cfr. il friulano skelsa) sarà un incrocio (sclidia) tra schidia e un germanico slitan (spaccare)... Dal nesso iniziale scl si è formato nel toscano ski -cfr. toscano schiuma (skluma < skumula), schiaffare, schiacciare, schiantare, schiarire" (G. ROHLFS, Op.cit, § 190, pp. 260 - 261).
In area pistoiese tuttavia capita (per ipercorrettismo) anche il contrario e cioè che il nesso ST assorba SK anche in parole non germaniche (stiacciola (non germanico), stiaffo (non germanico), stiantà (non germanico), stiena (germanico), stiuma (germanico), stioppo (non germanico), etc.).
Ancora una volta Rohlfs appare illuminante:
"Nel dialetto toscano volgare (prov. Firenze, Pistoia, Lucca, Pisa, Grosseto) ski passa con facilità a sti: cfr. stiuma (AIS, 1347), stiaffo, stioppo, stiavo, stietto, stiatta,; cfr. anche l'antico italiano stinca 'dorso di montagna' < long. skinka" (Ibid. p. 161)
Peraltro non deve mai essere dimenticato nello studio dei dialetti della nostra zona d'interesse quanto il linguista Paolo d'Achille scrive per l'italiano:
"Sebbene spesso riconoscibili anche dal punto di vista fonetico, per la presenza di foni o sequenze di foni rari o sconosciuti al latino, almeno in certe posizioni (come il nesso labiovelare sonoro 'gu' all'inizio di parola, con cui venne adattato il w- germanico), i germanismi si sono integrati nel sistema fonomorfologico locale" (P. D'ACHILLE, "Breve grammatica storica dell'italiano", Carocci, Roma, 2003, p. 119).
L'influenza delle lingue germaniche su molti dei dialetti e delle moderne lingue romanze (compreso l'italiano, il pistoiese e i dialetti altorenani) è stata così forte peraltro da introdurvi non solo numerosi vocaboli, e delle varianti fonetiche ma anche delle regole grammaticali; pensiamo per esempio all'uso degli infiniti preceduti da preposizione (comincio A parlare, finisco DI mangiare), uso che è sconosciuto al latino, e che è tipico delle lingue germaniche (inglese to + inf, tedesco zu + inf.). Ricordiamo brevemente che il futuro italiano non è la continuazione del futuro latino (ero, amabo ecc.) ma nasce da una forma perifrastica amare + habeo -> amer-ò;. Evidentemente la forma esse(re) + habeo -> sar-ò ha faticato ad imporsi, e per un certo tempo è stata supplita da una forma di fio. D'altra parte anche in tedesco il futuro si forma con werden (" diventare ") + infinito. E, forse, non è un caso che il futuro del tipo infinito + habere non si ritrova nel rumeno e nel sardo (ovvero nelle due lingue romanze che meno hanno subito influssi germanici). Anche il condizionale risulta una classe verbale sconosciuta al latino e realizzata perifrasticamente come nelle lingue germaniche. Sempre in tema di possibili contaminazioni germaniche vale la pena ricordare che la forma medioevale panromanza per l'interrogazione prevedeva l'anteposizione del verbo al sintagma nominale soggetto (costruzione linguistica tradizionalmente conosciuta come "inversione") tipica delle lingue germaniche (vedi l'inglese "Is Andrew tall?"). Tale forma sopravvive anche nell'area pistoiese e bolognese (e in generale nell'area gallo - italica / gallo - romanza) come dimostrano il bolognese "pòsia?" (lett. "posso io?") e il montalese "che vo' tue?"
Più complessa è la
situazione relativa alla negazione. Nelle zone più
settentrionali dell'Alto Reno (i territori comunali di Porretta Terme e
Gaggio Montano e parte di Lizzano in Belvedere, Castel di Casio e
Camugnano)la negazione è sempre del tipo ridondante paragonabile
al francese (je ne sais pas) nel pistoiese e nelle restanti parti
dell'Alto Reno la negazione è invece preferibilmente di tipo
semplice ("mi n al so" a Ponte della Venturina e "i n al so" a Lagacci
di Sambuca Pistoiese), preferibilmente, però, dato che esiste
anche una forma ridondante "mica" (miha) a Pistoia (es: a Pistoia e a
San Mommè, come in altre zone della Toscana, è uso dire
"non lo so mica") e "miga" nelle zone meridionali dell'Alto Reno. La
compresenza di una forma ridondante anche nella parte meridionale
dell'Alto Reno e nel pistoiese è di estremo interesse dato che
accomuna tutto questo territorio a un'area amplissima dell'europa
centrale francofona e germanofona dove la negazione è sempre del
tipo ridondante o postverbale (es: il tedesco "Morgen muss ich nicht
arbeiten"); come è noto la negazione ridondante può
semplificarsi in negazione postverbale (es: il francese "j' sais pas" o
il piemontese "sa fumma m piaz nen" lett. "questa donna mi piace
niente") . Alla luce di questi elementi avanziamo, così,
l'ipotesi che la presenza di una negazione ridondante (detta anche
discontinua) sia dovuta non a un presunto sostrato celtico, ma alla
pressione di lingue germaniche sulle lingue latine secondo un modello
che possiamo semplificare così: a) forma originaria latina in
cui la negazione precede il verbo (odierno portoghese "nao vi nenhum
hominem"); b) contatto con lingue germaniche in cui la negazione segue
il verbo (odierno nerlandese "mòoi is het nìet"); c)
realizzazione di una forma intermedia tra quella latina e quella
germanica in cui la negazione precede e segue il verbo (odierno
bolognese "an al so brîsa"). A supporto di questa nostra ipotesi
tre elementi: 1) tutto il territorio in cui appare la negazione
postverbale e la negazione ridondante appartiene alla cosiddetta "Area
Carlo Magno", ovvero ai territori del germanico "Sacro Romano Impero";
2) i territori che presentano la negazione postverbale e/o la negazione
ridondante sono quelli che maggiormente hanno ospitato popolazioni
germaniche; 3) il francese antico non presentava la ridondanza (es: "il
n'a en vous leauté" in Châtelaine de Vergi). Tenendo conto
dell'inerzia delle forme auliche scritte si può ben immaginare
che l'innovazione delle negazione ridondante risalga al periodo delle
dominazioni germaniche.
Il raro utilizzo della negazione ridondante nelle aree centro meridionali italiane (come attestato da Rohlfs a sud della Toscana il fenomeno assume un carattere di eccezionalità) può essere giustificato in parte per importazione dalla Toscana stessa o dal Nord Italia e in parte da influssi normanni (il gliotta dell'antico napoletano rimanda al goccia lucchese. Cfr nap. "non ce vede gliotta" con lucch. "'un ci veggo goccia"). E' comunque interessante osservare come nel caso del medio alto tedesco sia possibile riscontrare la presenza di una doppia e, persino, di una tripla negazione (cfr. G. DOLFINI, "Grammatica del medio alto tedesco", Mursia, Milano, 1989, pp. 99-100).
Di estremo interesse appare inoltre il
capitolo dedicato al pronome soggetto. Come è noto in tedesco
è obbligatorio esprimere il pronome soggetto che in italiano
viene omesso (tedesco "hast du die Äpfel gekauft?" contro italiano
"hai comprato le mele?"). Anche qui la nostra area di interessa mostra
una analogia con le lingue germaniche molto forte, in particolare per
la zona altorenana (Sambuca Pistoiese compresa): In buona parte
dell'Alto Reno, infatti, il pronome soggetto nelle forme toniche (io,
tu, egli) viene sostituito dalle forme obbligate (ad esempio il
pavanese mi, ti) a cui si affianca l'elemento "i" in luogo del
bolognese "a". Avremo in questo modo il bolognese "mé a
dég" e a Pavana Pistoiese "mì i diggo". Ma anche l'area
pistoiese (in comunanza col fiorentino) prevede la pronominalizzazione
obbligatoria del soggetto sia nella forma semplice ("quando tu dici")
che reduplicata ("te tu dici"). L'uso tendenzialmente obbligatorio del soggetto prenominale è esemplificato anche nel brano seguente registrato a Firenze e riportato da Luca Lorenzetti in "L'Italiano contemporaneo" (Carocci, Roma, 2005, p. 92):
"...io prendo e ti telefono, e te, domattina, tu vai alla Pubblica Istruzione, tu mi porti i' mi' certificato, 'n più tu li dici che io mi trovo in casa della Maria..."
Come si vede in questa frase la maggior parte dei pronomi risulta omissibile nell'italiano standard e il loro uso risulta giustificato solo se ammettiamo l'appartenenza della lingua toscana tra quelle che non possono omettere il pronome soggetto (inglese, francese,tedesco, dialetti nord - italiani, etc.). Nell'italiano standard la frase sarebbe infatti resa:
"...prendo e ti telefono, e tu, domattina, vai alla Pubblica Istruzione, mi porti il mio certificato, in più gli dici che mi trovo in casa di Maria"
Come si vede, dunque, anche nel pronome soggetto
la nostra zona di interesse partecipa alla comune area franco -
germanica (cosiddetta "Area Carlo Magno") e tale appartenenza non
è da considerarsi certo un fenomeno recente dato che già
nei testi toscani antichi il pronome soggetto tende
all'obbligatorietà: "Voi sapete bene che voi foste figliuolo del
cotale padre" (Novellino). Anche nelle "Sessanta novelle popolari
montalesi" del Nerucci (1880) sono molto diffusi i casi di espansione
del sogetto (es: "Ma che vi par'egli?").
Per contro, e per noi
ciò
costituisce una ulteriore prova che si tratta di un fenomeno dovuto al
contatto con lingue germaniche, in francese antico i verbi a soggetto
espresso, sia pur prevalenti, non risultano obbligatori (cfr. A.
VARVARO, "Linguistica romanza", Liguori Editore, Napoli, 2001, p. 97)
Un ulteriore percorso di ricerca che meriterebbe un approfondimento è sicuramente offerto nel campo dei calchi. Come è noto le lingue neolatine più esposte all'influsso germanico hanno sviluppato anche delle locuzioni basate sul tedesco; alcune espressioni ladine risultano lampanti in proposito: ladino 'as far our da la poulvra' (col significato di "svignarsela") e tedesco 'sich aus dem staub machen'; ladino 'que nun ha ne mans ne peis' (senza senso) e tedesco 'das hat weder hand noch fuss'. L'ultima espressione è particolarmente interessante anche per il nostro ambito di ricerca non solo perché ricorda fin troppo da vicino l'italiano "non ha né capo né coda", ma anche una sambucana "non ha né testa né gambe". Ci risulta peraltro che pure la locuzione "far ridere i polli" (che peraltro appare anch'essa ben distribuita nella penisola italiana) sia presente anche in terra tedesca ("Da lachen ja die Hühner"), come pure esiste in tedesco l'equivalente dell'espressione "nella misura in cui" ("in dem Maße wie"). Peraltro, considerato che le lingue neolatine hanno incominciato a sviluppare dei calchi dalle lingue germaniche fin dai tempi più antichi (è il caso del gotico "ga hlaiba" da cui si è sviluppata, per calco, la forma panromanza "compagno" che ha sostituito il latino sodales, ma è anche il caso del "nontiscordardime" che ha corrispondenze in moltissime lingue europee germaniche e non: tedesco "vergissmeinnicht", inglese " Forget me not", olandese "Vergeet-mij-nietje", spagnolo "nomeolvides", etc.), potrebbe essere utile verificare se certe parole o espressioni d'uso locale possano essere ricondotte al periodo gotico o longobardo. In altri casi l'ambito di ricerca può risultare utile solamente dal punto di vista analogico (ovvero per verificare strategie linguistiche comuni, ma senza alcun rapporto di discendenza da una all'altra lingua); è il caso, per fare un esempio, dell'accrescimento per apposizione (stracco morto). Non è possibile invece esprimere alcun giudizio definito sulla presenza nelle lingue romanze e nelle lingue germaniche dell'articolo determinativo che risulta assente nel latino classico. L'ipotesi tuttavia più probabile è che lingue neolatine abbiano sviluppato l'articolo determinativo per suggestione del greco (in questa maniera è peraltro possibile spiegare la presenza dell'articolo determinativo in lingue come l'albanese e il bulgaro). Nel trattare la questione dell'articolo determinativo non andrà comunque sottovalutato questo passo della linguista Charmaine Lee: "La formazione dell'articolo in latino tardo e nelle lingue romanze sembr anche parallela alla sua comparsa nelle lingue germaniche e risale al VI secolo (C. LEE, "Linguistica romanza", Carocci, Roma, 2000, p. 102). Nè andrà sottovalutato questo passo dello storico Muratori: "Per esempio usando i Longobardi e Franchi, siccome nazioni Germaniche, di anteporre l’articolo ai nomi, facilmente gl’Italiani abbracciarono tale usanza, e cominciarono ad adoperare il, la, lo, li, o i, le. Come ciò avvenisse, il Castelvetro, acuto esaminatore delle etimologie, fu il primo ad avvertirlo, e ne profittò poi Celso Cittadini. Cioè dal Latino pronome ille, illa, illi, illae, si formarono gli articoli della lingua Volgare. Imperciocché solendo il volgo dire illo caballo, illa hasta, illae feminae, lasciando la prima o l’ultima sillaba di esso pronome, incominciò per abbreviare il parlare a dire il cavallo, lo cavallo, la asta, l’asta, le femmine, ecc.".
Alla luce di quanto sopra esposto, e a costo di essere ossessivamente ripetitivi, ci pare opportuno ribadire che nel caso dei prestiti morfo - sintattici il più delle volte non ci troviamo a che fare con derivati linguistici specificamente longobardi, ma con derivati linguistici più in generale germanici (che risultavano già presenti nelle lingue germaniche antiche e nel cosiddetto Alt - deutsch) che riteniamo siano stati accolti (più o meno intensamente) dalle popolazioni latine del Sacro Romano Impero Germanico. A nostro modesto avviso nel campo della morfo - sintassi il contributo longobardo si deve essere limitato semplicemente ad una azione di supporto in sede locale di un immenso sforzo linguistico unificatore portato avanti dalle elite germaniche dello stesso Sacro Romano Impero (se si trattasse, al contrario, di un lascito linguistico esclusivamente longobardo non potremmo spiegarci la ragione per cui una rilevante parte di questi fenomeni risulta assente nella cosiddetta "Longobardia Minor" - che comprendeva Benevento, Salerno e altri territori del Sud Italia - che fu governata da Duchi e Principi Longobardi ininterrottamente dal 570 al 1077).
Sempre all'appartenenza all'Area Carlo Magno andrà attribuito un fenomeno linguistico ancora ben attestato in area bolognese, ma in forte regressione in area pistoiese e toscana (e tuttavia ben testimoniato nei testi toscani medioevali), quello del soggetto fittizio o pleonastico:
Per soggetto fittizio o pleonastico (detto anche espletivo) si intende la realizzazione di un soggetto privo di contenuto semantico in frasi impersonali. Tale fenomeno si ritrova infatti nel bolognese "ai arîva tô pèder", nel francese "il pleut", nel tedesco "es kommt sein Vater". Per l'area toscana, e in particolare fiorentina, scrive Giampaolo Salvi dell'Università Eötvös Loránd di Budapest:
"A differenza che in it. mod., in it. ant. nelle frasi impersonali e semi-personali era possibile usare il pronome egli (con le sue varianti e’ ed elli) come soggetto espletivo (o pleonastico). Questo soggetto non ha un contenuto semantico, nel senso che non individua un referente, ma serve solo a realizzare la posizione sintattica di soggetto. L’uso di un soggetto espletivo non era tuttavia obbligatorio e nelle frasi impersonali e semi-impersonali la posizione soggetto poteva rimanere vuota, esattamente come nel caso dei pronomi soggetto referenziali, la cui espressione non era obbligatoria. L’espressione del soggetto espletivo è tuttavia molto rara nel fiorentino del Duecento; diventa più frequente a partire dal Trecento, ma resta sostanzialmente caratteristica di uno stile vicino al parlato" (ludens.elte.hu/~gps/konyv/frase.doc)
Per l'area orientale della Provincia di Pistoia segnaliamo che, nelle sessanta novelle popolari
montalesi di Nerucci (1880), è ancora possibile trovare esempi di
soggetto espletivo (es. "che si fa egli qui"). Il soggetto fittizio è tuttavia ancora conosciuto ed usato in alcune aree del pistoiese come Prataccio di Piteglio:
'Sopravvivenza di un soggetto (nella forma "E'" derivata per elisione da "Ei") per la terza persona di verbi anche impersonali. Per esempio "E' piove!" In questo caso nella pronuncia non si percepisce raddoppiamento sintattico della p di piove a causa dell'elisione' (Samuele Straulino).
Anche il già citato Luca Lorenzetti (professore di glottologia all'Università di Cassino) registra vari casi di presenza dei soggetti fittizi nella parlata toscana dei nostri giorni:
'Le differenze di comportamento tra italiano comune e italiano toscano rispetto ai pronomi vanno oltre: anche l'italiano di Toscana usa pronomi vuoti, che non si riferiscono a nessun soggetto, ad esempio con i verbi meteorologici e con gli impersonali:"e' piove", "e' mi pare che basti" (anche qui l'analogia è piuttosto con lingue come inglese e francese, che hanno soggetto obbligatorio in it's raining, il pleut, it seems, il semble)' (L. LORENZETTI, "L'italiano contemporaneo", Carocci, Roma, 2005, p. 93)
Tale situazione ci suggerisce peraltro la necessità di ripercorrere l'ipotesi del linguista Nocentini che suggeriva, almeno per alcune varietà romanze fortemente influenzate da varietà germaniche, la definizione di lingue "romanzo - germaniche". Per chi è interessato a saperne di più sull'ipotesi del Nocentini si rimanda alla lettura delle pagine 69 e 70 del suo libro "L'Europa Linguistica" (Le Monnier, Firenze, 2004) in cui il Nocentini dimostra: a) che il fenomeno delle vocali turbate (e in particolare di [y]) presente nei dialetti nord italiani (ma assente del tutto nella nostra area di interesse con la sola eccezione del toponimo oggi scomparso di "Cà d'Ghiümira" nei pressi di Badi) è un effetto generale della prosodia che ritroviamo nel tedesco; 2) che la caduta e la riduzione delle vocali atone è un fenomeno tipico di Francia, Nord Italia e Catalogna ovvero dei territori propri della Romània Germanica (il fenomeno di caduta delle vocali atone è ben rappresentato nei dialetti altorenani ma del tutto assente in area pistoiese e toscana che tuttavia presenta nei suoi vernacoli la prostesi vocalica (arricordare, arcipresso, affortunato, etc.) che può essere considerato un fenomeno normalmente correlato alla caduta delle vocali ed assunto in terra toscana proprio per effetto della comune appartenenza della Toscana stessa all'Area Carlo Magno).
Non andrà peraltro dimenticato che lo sforzo di unità linguistica che ha determinato la nascita della "Area Carlo Magno" s'inquadra in un movimento generale voluto direttamente dall'Imperatore franco di unificazione della scrittura e della cultura nel Sacro Romano Impero. Di sicura volontà imperiale sono ad esempio:Per concludere questa riflessione sull'Area Carlo Magno andranno, tuttavia, segnalati un paio di paradossi relativi alla presenza del neutro e all'ordine dlele frasi. Paradossi che mostrano la moderna lingua tedesca sotto questi aspetti più simile al latino di quanto non lo siano le lingue romanze.
In relazione al primo paradosso si osserva stranamente come la comune appartenenza delle lingue germaniche e delle lingue romanzo occidentali (toscano incluso) alla comune area Carlo Magno non ha avuto alcun esito sulla conservazione del genere neutro accanto al genere maschile e femminile. Infatti mentre il germanico e il latino conoscevano il neutro, il femminile e il maschile, e mentre il tedesco conserva questa tripartizione, le lingue romanze occidentali l'hanno abbandonata a favore di una bipartizione maschile / femminile. Probabilmente l'assenza del genere neutro andrà così addebitata ad un fenomeno linguistico già in essere in età imperiale (e infatti possiamo leggere nella "Cena Trimalchionis" (periodo di Nerone): "vinus mihi in cerebrum abiit"). In ogni caso, nella nostra zona di interesse, sopravvive una classe ristretta di forme neutre in gran parte comune con l'italiano: ossa / osso , uova / uovo, braccio / braccia, etc. Tuttavia risultano presenti alcune forme di neutro non riconducibili all'italiano: "le pera" nella Valle della Lima (citato in D. MUCCI MAGRINI, "Quando i necci erano il pane", Pistoia, 2002, p. 27), "le bracce", "le corne", "le dide", "ll'ove", "ll'osse" a Sambuca Pistoiese (citate in G. ROHLFS, "Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti - Morfologia", Torino, 1998, § 369, p. 38). Sempre nel genere neutro sopravvive, sia pure a livello di toponomastica (vedi Campori presso Torri o Campore frazione di Marliana), il tipo "le corpora" (ROHLFS, Idem, § 370, pp. 39 ss). A differenza delle altre forme di neutro è ipotizzabile, per questa particolare manifestazione del neutro, un qualche influsso (INDIRETTO) di popolazioni germaniche, dato che nel "Codice diplomatico longobardo" si riscontra la presenza di campora, tectora, ortoras e in altri documenti perfino delle forme waldora, morgincapora, burgora, segno che i longobardi usavano con una relativa frequenza (nel loro latino) questa forma.
Per quanto attiene il secondo paradosso ci pare opportuno rilevare come le lingue romanze nell'ordine delle frasi seguano un modello SVO (Soggetto - Verbo - Oggetto) in continuità con il greco, le lingue slave e la quasi totalità delle lingue germaniche, mentre il tedesco moderno si mostra in continuità con il latino classico che preferisce un ordine SOV (Soggetto - Oggetto - Verbo). E' possibile, a nostro modesto avviso, che questo secondo paradosso possa essere spiegato in questa maniera: a) per le lingue romanze influsso del greco ecclesiastico combinato con con l'influsso delle lingue germaniche barbariche e, in piccola parte, di popolazioni slave; b) per il moderno tedesco influsso viceversa del latino classico come lingua di cultura europea.
FORMAZIONE DELLE PAROLE
Suffissi germanici sopravissuti in
questi dialetti sono -ardo, -aldo (rispettivamente dal germanico -hart
e dal germanico -wald), -engo, -iska diffusi in toponimi
(Pellegrinesca), nomi di persona (Ermengarda, Edgardo, Gerardo), nomi
comuni (ghenga = combriccola, paterlenga / petrolinga (XIII) = frutto della rosa canina). I
suffissi -ardo
e -aldo, per influsso mediato del francese sull'italiano e
dell'italiano sui dialetti, hanno trovato nuova linfa diventando
relativamente produttivi (es: "bastardo" dall'antico francese
"bastard").I suffissi in -iska e in -enga costituiscono invece una
classe assai limitata e fossilizzata di termini. L'unico esempio che
possiamo menzionare, fra quelli a nostra conoscenza, di neologismo
formato con un suffisso germanico in -inga nei dialetti pistoiesi ed
altorenani è il pistoiese cilinga (= gomma da masticare,
cingomma). A livello di suffissazione (o pseudosuffissazione) non
andrà inoltre dimenticata la particolare presenza di fome
"-ecco" (germanico -ikan) tutte derivabili da termini germanici (vedi bernecche). L'attribuzione al germanico dei
suffissi del tipo -otto (particolarmente diffuso nella nostra area di
interesse come dimostrano le forme: calzinotto, candelotto,
ciliegiotto, etc.), -atto, -etto - assenti in latino - è
comunque dubbia anche se il Gamillscheg (in Romania Germanica) è di questo parere. Altro suffisso di dubbia attribuzione ma germanico sia per Gamillscheg che per Bertoni è -iero (iere). Tra i prefissi germanici risulta, invece,
particolarmente produttivo il prefisso "ber" (vedi berlicche,
berlingozzo, berlocca, etc.) Altro prefisso di origine germanica è mis. Quest'ultimo prefisso rappresenta, peraltro un'altra traccia dell'appartenenza della nostra zona di interesse all'Area Carlo Magno: il prefisso "mis", infatti, deriva dal franco missi (lo stesso del tedesco misfallen, missachten, missmut) che è passato ai vari dialetti italiani all'epoca dell'ascendente politico culturale franco. Questo prefisso, che può esprimere il concetto di cattivo o contrario, è piuttosto produttivo e ci ha offerto, ad esempio nella lingua italiana, vocaboli come miscredente, misfatto, misconoscere, misavveduto, etc. Pur essendo presente, più o meno modificato, anche in dialetti meridionali il prefisso mis- risulta particolarmente vivo nel Nord e Centro Italia per poi scemare nel Sud della penisola italica dove è preferito un suffisso apparentemente simile ma derivato dal latino minus.
Come già osservato in precedenza
alcune parole sono state particolarmente produttive e da queste
derivano molti derivati (tipo brehhan), ma attualmente la
possibilità di realizzare nuovi termini da radici longobarde si
è ridotta a livelli minimi e spesso si tratta più di
riscoperte che non di creazioni(ad esempio il cosiddetto neologismo
"introgolarsi", che secondo Raffaella Zuccari sarebbe stato "inventato"
da Francesco Guccini per la sua versione in dialetto pavanese della
Casina di Plauto, è voce toscana e pistoiese col significato di
sporcarsi, imbrattarsi).
A questo punto non andrà dimenticato un interessante commento della professoressa Haendl dell'Università di Genova riferito alla lingua nazionale italiana, ma valido anche per i dialetti della nostra area di interesse:
"Anche dalle poche parole qui citate appare chiaro che il contributo linguistico dato dalle invasioni germaniche all'italiano fu importante e decisivo: molte infatti delle parole che noi usiamo quotidianamente e delle quali non sapremmo più fare a meno, sono germaniche. Altrettanto importante però è notare che nel momento in cui furono accolte la maggior parte di esse non era affatto necessaria; senza dubbio la situazione culturale aveva creato le premesse indispensabili per l'ingresso di questi termini, ma la loro adozione risponde non a necessità concrete, ma a esigenze di tipo espressivo. In altre parole furono adottate perché sentite più efficaci e rispondenti ad esprimere quella diversa realtà storica nella quale i Romani erano venuti a trovarsi con le invasioni germaniche. Molto spesso di fronte al corrispondente termine latino la parola germanica ha ancora oggi un qualcosa di "esagerato" e talvolta di "volgare" che sembra proprio voler mettere in luce certi comportamenti che senza dubbio ai Romani parevano sconvenienti: v. per es. bere e trincare, bagnarsi e sguazzare, dormire e russare, prendere e arraffare, ecc. La stessa sfumatura spregiativa o comunque espressiva si riscontra spesso anche in numerosi aggettivi italiani formati con i suffissi germanici -aldo (spavaldo, ribaldo, truffald[ino], ecc.), -esco (oggi in realtà usato molto frequentemente come semplice suffisso di derivazione aggettivale: pittoresco, trecentesco, temporalesco, ecc.; una sfumatura peggiorativa si può notare ancora in animalesco rispetto ad animale, in militaresco rispetto a militare, ecc.), -ingo (raro, v. ramingo, solingo, guardingo, casalingo, ecc.), -ardo (beffardo, bugiardo, infingardo, dinamitardo, ecc.). Altre volte invece alcuni termini sembrano sottintendere una certa simpatia da parte dei Romani: v. per es. schietto, baldo, franco, o almeno un apprezzamento che a noi può anche apparire strano, verso determinate usanze. Ci stupisce ad esempio che molti dei nomi di colore che usiamo comunemente siano germanici: bianco, biavo (oggi caduto in disuso e sostituito da blu che, filtrato attraverso il francese, è pur sempre germanico), bruno, biondo, grigio. È probabile che si siano diffusi con il commercio delle stoffe, infatti nel campo dell'abbigliamento in genere l'influenza germanica fu notevole (v. i già citati termini guanto, scarpa, feltro, cotta, fazzoletto, nastro, ecc.). Grande successo ebbero anche i nomi di persona germanici; alcuni sono ancora oggi comunissimi: Corrado, Guglielmo, Ruggero, Roberto, Guido, Carlo, Federico, ecc., altri hanno dato origine a cognomi altrettanto diffusi: Alberti, Berardi, Nardi, Ruggeri, Uberti, Corradi, Rolandini, ecc."
GORGIA TOSCANA
Per "gorgia toscana" si intende quel singolare fenomeno per cui le consonanti sorde P, T, K (la c dura di casa) vengono spirantizzate (es: fiho per fico e ditho per dito).
Alcuni studiosi hanno supposto una origine germanica anche per la gorgia toscana (es: Lucia Clark in "The Tuscan Gorgia, Dialects and Regional Identity: a Survey"). All'origine di tale supposizione è la relativa somiglianza tra la ch germanica (cfr. "machen") e la gorgia toscana.
Tuttavia andrà considerato che il fenomeno non risulta presente in aree fortemente germanizzate come il Nord - Italia o, per rimanere nell'area di nostro interesse, l'Alto Reno.
E', pertanto, assai più probabile che la motivazione della gorgia toscana sia da imputarsi ad una reazione nei confronti della sonorizzazione delle sorde intervocaliche proveniente dal Nord Italia. Anche se non andrà dimenticato questo importante passo del già citato Rohlfs:
"[Per la gorgia toscana] converrà guardare con qualche dubbio la tesi dell'eredità di un sostrato pre-latino. Noi riteniamo perciò essere più verosimile che queste aspirazioni consonantiche abbiano una origine neolatina piuttosto recente ed indipendente dall'etrusco. Si potranno piuttosto mettere a confronto con il risultato della mutazione consonantica dell'antico alto - tedesco (k > ch, p > pf, t > ts): saka > ted. Sache, cupa > Kopf, kratton > kratzen)" (G. ROHLFS, "Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti - fonetica", Torino, Einaudi, 1999, § 196, p. 268).
Dunque non vi è alcuna certezza scientifica che possa testimoniare una origine germanica diretta della gorgia toscana, ma solo qualche labile sospetto. Ben diverso è, tuttavia, l'esito della riflessione se ragioniamo in termini di tipologia linguistica.
Abbiamo infatti sostenuto, alla luce delle acquisizioni scientifiche più affidabili, che la gorgia toscana è da imputare ad una reazione nei confronti della sonorizzazione delle sorde intervocaliche proveniente dal Nord Italia, sonorizzazione delle sorde intervocaliche da imputarsi proprio alle elite longobarde (e più in generale germaniche) presenti in Toscana:
"La bizzarra e sconcertante contraddizione che notiamo nelle coppie fuoco e luogo, prato e strada, capo e riva, cacio e fagiano, sasso e coscia, orecchio e coniglio, sembra ripetersi nel campo del vocalismo, dove abbiamo piede e bene, pietra e lepre, fiele e mele (toscano popolare), nuovo e novo, fuoco e foho, vietare e venire, vuotare e morire, viengo (toscano popolare) e dente, cuomo (Arezzo) e porco. Per questa irregolarità o varietà mi piace citare: 'Anche questa, COME LA LENIZIONE CONSONANTICA, è ai miei occhi, un'innovazione penetrata in Toscana dalla Lombardia sempre per la via di Lucca; e sempre - come suol avvenire - attraverso gli strati superiori, più colti: la classe clerico - notarile, e poi anche mercantile ... Come questa anche la dittongazione incondizionata (cioè non legata a fenomeni metafonici) va, io credo, veduta come un apporto della conquista carolingia' (Tem. Franceschi). 'Pel tramite del clero, indubbiamente orientato - attraverso Lucca, capoluogo politico e quindi anche ecclesiastico - verso i grandi centri religiosi del settentrione, penetrano in Toscana, in epoca longobarda, innovazioni fonetiche settentrionali: ché la pronuncia diffusa dalla nuova capitale Pavia, la pronuncia lombarda, non poteva non apparire a quei provinciali come la più distinta' (Tem. Franceschi)" (G. ROHLFS, "Studi e ricerche su lingua e dialetti d'Italia", Sansoni, Firenze, 1997, pp. 159 - 160).
Pertanto la particolare situazione linguistica
della Toscana (e
quindi del pistoiese) relativa al dittongamento incondizionato, alla
parziale sonorizzazione di K, T, P e alla gorgia toscana sono da
attribuire alla partecipazione della Toscana medesima (e quindi del
pistoiese) alla comune Area Carlo Magno già menzionata nel
paragrafo dedicato alla fonetica, alla morfologia e alla sintassi. Sia con minore sicurezza (la cosiddetta "teoria delle onde" di Schmidt potrebbe essere più che sufficente) avanziamo, infine, l'ipotesi che anche determinati suffissi, di tipo settentrionale, presenti in Toscana sono stati adottati per una 'moda' voluta dalle elite germaniche: "Andrà quindi considerata d'origine padana la variante produttiva -uzzo del suffisso -uccio, dal lat. -uceus (e così pue la variante arcaica -ozzo di -occio, da un tardo lat. volg. *-oceus). Influssi meridionali sarebbero, in questo caso, molto improbabili. Una riprova: nel lucchese, dialetto in cui l'elemento settentrionale è più vistosamente rappresentato che in fiorentino, si ha anche -izzo (-icius, -iceus) o meglio -izzoro (combinazione di -izzo con -olo, in cui -l- s'è rotacizzata): omizzoro, donnizora, donnizzorino (Nieri, Appendice al Vo. lucch., p. 284), linguizzora, pedizzoro, manizzora, codizzoro (ibi., p. 285)" (A. CASTELLANI, "Grammatica storica della lingua italiana - Introduzione", il Mulino, Bologna, 2001, p. 140).
Gorgia Toscana ed ipotesi etrusca: per sapere qualcosa sulla ipotesi "etrusca" clicca qui
incisione al "Tribunale" di Ronco di Serra (PT)
LE MUMMIE
Si tratta delle tradizionali maschere di pietra presenti nei Comuni di Lizzano in Belvedere, Sambuca Pistoiese, Granaglione. La loro presenza è stata attribuita da molti a una sopravvivenza del macabro rituale di celti e longobardi di esporre fuori dalla propria capanna le teste dei nemici uccisi. A favore dell'ipotesi longobarda è il fatto che le Chiese della Città e della Provincia di Pistoia (che furono germanizzate dai longobardi) presentano un identico fenomeno (peraltro presente anche in molte chiese lucchesi e in aree del pisano come, ad esempio, i muri perimetrali del cimitero di Piazza dei miracoli a Pisa), mentre risulta assente nel bolognese (terra gallica). A Pistoia, anzi, sopravvivono alcuni esempio di mummia direttamente collegati ad eventi della vita civile e della realtà bellica dei pistoiesi:
Le teste di moro poste sulla facciata del Municipio di Pistoia e lungo il cosiddetto "Canto de' Rossi" infatti rappresentano il Re Musetto II di Maiorca ucciso dal condottiero pisotiese Grandonio dei Ghisilieri, mentre la testa del traditore Tedici è posta sul portale della Chiesa di Sant'Andrea
"Comunque sulla facciata non mancano insegne dell'epoca medioevale, quali la testa di marmo nero sormontata da una mazza in ferro che una leggenda popolare identifica con l'effige del traditore della città Filippo Tedici, anche se presumibilmente si tratta del ritratto di Re Musetto II di Maiorca, ucciso dal capitano pistoiese Grandonio dei Ghisilieri durante la conquista delle Baleari nel XII secolo. La testa del Tedici si trova invece sul portale di Sant'Andrea e la tradizione vuole che sia nera perché in segno di spregio vi venivano spente le torce prima di entrare in chiesa."
(Dal sito http://www.comune.pistoia.it/conoscere/scoperta/scoperta_10.htm)
"Dopo di che Filippo Tedici fu cacciato e, tentando di rientrare in armi nel territorio pistoiese, fu contrato ed ucciso presso il ponte sulla Lima, sotto Popiglio. La sua testa, spiccata dal busto, fu portata in città, riprodotta in marmo e posta su alcuni angoli pubblici a feroce monito contro i traditori" (A. CIPRIANI, "Breve storia di Pistoia", Pacini Editori, Pisa, 2004, p. 50).
La mummia del moro, in qualche modo, ci ricorda l'incipit dello "Orlando" di Virginia Woolf:
"Egli - poiché dubbio non v'era sul suo sesso, per quanto la foggia di quei tempi lo dissimulasse - stava prendendo a piattonate la testa di un moro, che dondolava appesa alle travi del soffitto. Aveva essa la tinta d'una vecchia palla di cuoio; e quasi ne avrebbe avuto la forma, se non fosse stato per il cavo delle guance, e i capelli duri e aridi come barbe di una noce di cocco. Il padre di Orlando, o forse il nonno, l'aveva spiccata dal busto del gigantesco infedele che gli s'era parato davanti improvviso al chiaro di luna, nelle barbare distese africane, e ora essa oscillava dolcemente, incessantemente, alla brezza perenne che soffiava per le logge in cima alla vasta dimora del signore che aveva decapitato l'infedele. I padri di Orlando avevano cavalcato per i campi diasfodeli, e per i campi sassosi, e per campi bagnati da acque straniere, e da più di un busto avevano spiccato più d'una testa di vario colore, e le avevano portate seco onde appenderle alle travi dei loro soffitti" (V. WOOLF, "Orlando", Mondadori, Milano, 2004, p. 7)
Lo spirito dei pistoiesi era, quindi, ancora
fortemente collegato
all'ideale guerresco dei popoli germanici così ben esemplificato
nel romanzo di Virginia Woolf. Se tutto questo non dovesse bastare ricorderemo, infine, che il motivo ornamentale delle teste tagliate era proprio anche dei Goti: "Particolari motivi ornamentali che, come si accennava poco fa, furono adottati dai Goti, e in maniera particolare dagli Ostrogoti, furono le têtes coupés (teste tagliate) e l'aquila. Il tema della testa, molto stilizzata nell'arte gota, verrà ripreso in quella franca e successivamente nell'arte carolingia e in quella romanica" (S. ROVAGNATI, "I Goti", Xenia, Milano, 2002, p. 80).
IL CULTO DEGLI ALBERI
E' risaputo che per le antiche popolazioni germaniche il culto degli alberi era un culto fondamentale. Noto, ad esempio, è il caso del frassino Ygadrasil la cui morte avrebbe segnato la fine del mondo. Per quanto riguarda i Longobardi è bene ricordare che la "Vita Barbati episcopi beneventani" menziona un rito longobardo legato a un "albero sacro" (cfr. S. ROVAGNATI, "I Longobardi", Xenia, Milano, 2003, p. 101). Anche in Alto Reno troviamo la sopravvivenza del culto degli alberi, sia per assimilazione di tradizioni italiche che per 'atto autonomo':
- A Granaglione, fino alla metà dell'ottocento, le promesse di matrimonio erano fatte all'ombra di un gigantesco castagno (Nueter, n. 1, anno I, 1975, p. 17);
- A Pianaccio e Monte Acuto sopravvive la tradizionale "fasgela" (La Musola, anno XXIV, 1990, n. 47, p. 108): un piccolo tronco rigorosamente di legno chiaro (preferibilmente faggio) veniva dato alle fiamme durante la notte di Natale nei pressi della scalinata della chiesa (a questa tradizione si accompagnano in Alto Reno anche i più tradizionali ceppi di natale e i falò);
- Tra Granaglione, Castel di Casio, Lizzano in Belvedere, Sambuca Pistoiese, Piteglio, Pistoia stessa era diffusa l'antica tradizione del "bosso" (detto anche "fuori il verde", "verde in bocca" o "fiore verdo") inteso come giocoso impegno pasquale che aveva come protagonista un rametto di bosso;
- Negli stessi comuni era diffuso anche il tradizionale 'Maggio' che Guccini (e non solo Guccini) riconosce essere la sopravvivenza del culto della terra e degli alberi proveniente da una antichissima Europa "nordica o mediterranea" (Nueter, 1978, n. 2, p. 17). Anche nella manifestazione del canto ricorrono delle strane analogie tra la tradizione locale e quella presente in regioni germanofone:
MAGGIO
A PITEGLIO |
MAGGIO
IN SVEZIA |
"Nella
notte tra il 30 aprile e
il primo maggio, i giovanotti recavano in dono rami fioriti alle case e
percorrevano il paese cantando il 'Maggio' che prevedeva peraltro
preghiere per la prosperità delle galline e delle famiglie in
genere. "Fermatisi davanti alla casa, veniva ripetuto il canto del
maggio sino a quando il padrone o la padrona non fossero scesi ad
aprire, ed avessero riposto nel paniere dello 'ovaio' (colui che
raccoglieva le uova) la coppia di uova richiesta. A quel punto,
l'allegra compagnia ringraziava e salutava, lasciando sulla rostra
della porta un ramo fiorito'" ( G. MUCCI, "Fattecosiecche...: Leggende, paure e riti nel paese di Piteglio", Provincia di Pistoia, Pistoia, 1999, p. 46)
"Prima che arrivasse l'alba, alcuni di quei giovani si
recavano nei boschi per tagliare 'l'albero del maggio': un alberello
che, addobbato con nastri rossi, veniva innalzato sulla piazza del
paese" (Ibid., p. 47) |
"Alla
vigilia del calendimaggio,
in alcune località della Svezia, i ragazzi si aggirano per le
strade, recando rami freschi di betulla, con o sena foglie. Guidati dal
violinista locale, vanno di casa in casa. cantando le canzoni del
maggio, che consistono per lo più in preghiere perché il
tempo sia buono, il raccolto abbondante e tutti siano felici nell'anima
e nel corpo. Uno di questi ragazzi porta un cestino per raccogliere le
offerte di cibo. Se vengono accolti bene, piantano un rametto fronzuto
nel tetto, sopra la porta di casa" (J. G. FRAZER, "Il ramo d'oro",
Newton Compton Editore, Roma, 1999, p. 152 - 153)
"Il primo di maggio in Svezia, si usava innalzare nel
villaggio un alto abete con nastri, e, a suon di musica, la gente vi
ballava allegramente intorno" (Ibid., p. 154) |
MAGGIO
A
PITEGLIO
MAGGIO IN ALSAZIA
"Se però una
famiglia non
avesse gradito il 'cantar maggio' e nessun componente di essa si fosse
svegliato [e fatto l'offerta di uova richiesta], una quarta
'stanzetta' (strofa) era così riproposta:
'Se due uova non ci date
pregherem per le galline
che da volpi e da faine
vi sian tutte divorate
se due uova non ci date...'"
( G. MUCCI, "Fattecosiecche...: Leggende, paure e riti nel paese di
Piteglio", Provincia di Pistoia, Pistoia, 1999, p. 46)
"Se qualcuno rifiuta di
offrire
il dono, mentre cantano augurano a quell'avaraccio, che la faina divori
le galline, la vita non dia grappoli, né cresca il suo grano; si
ritiene che, per quell'anno, i prodotti della terra dipendano dai doni
che si offrono a questi canterini di maggio" (J. G. FRAZER, "Il ramo
d'oro", Newton Compton Editore, Roma, 1999, p. 156)
Anche nel Maggio drammatico di Granaglione è presente traccia dei riti arbori:
"Alto e Grado venne tosto
nel deserto e non tardare
quel gran santo a sotterrare
che in un faggio sta nascosto"
(cfr. AA.VV.,"Il Mondo di Granaglione", Tamari Editore, Bologna, 1977, p. 286).
Durante la tradizione del maggio era poi usuale piantare l'albero del maggio (detto il "majo" a Montale e in molte altre zone) davanti alla casa delle donne che si voleva sposare. Questa tradizione è peraltro testimoniata in una poesia di Lorenzo il Magnifico:
"Se tu vuoi appiccare un majo a qualcuna che tu ami Quanto è bello e fresco e gajo appiccar un pin cò rami" (Lorenzo il Magnifico, Canzoniere 26,4). E' peraltro possibile che la tradizione del Maggio sia il frutto di una contaminazione di tradizioni germaniche con l'antica festa romana della "Floralia" che si celebrava anch'essa "tra la fine dell'aprile e i primi di maggio" (F. CARDINI, "Breve storia di Firenze", Pacini editore, Pisa, 2003, p. 18)
- Grande importanza hanno i rami del
pungitopo e del ginepro per festività come San Paolo (17
gennaio) e Natale (ad esempio il fogarone di Treppio). Tra le tradizioni natalizie quella
del ciocco di natale, pur diffusa in tutta Europa, mostra interessante
similitudine con quella della Germania centrale.
Il
parroco Fumagalli ricorda questa
tradizione nella Valle del Randaragna: "LA
FESTA DELLE PALME: Più che
celebrare l'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, accolto
dalla folla con i rami di palma e al grido: "Osanna al Figlio di
Davide, benedetto Colui che viene nel nome del Signore", la
comunità boscaiola, pur avendo presente questo fatto, sembra
celebrare un altro avvenimento dell'Antico Testamento. Più che
festa delle Palme è festa dell'Ulivo. Noi sappiamo che l'ulivo
è simbolo di pace e di vita. "Avendo noi aspettato altri sette
giorni Noè mandò fuori dall'arca la colomba la quale
ritornò a lui verso sera portando nel becco un ramo di ulivo con
verdi foglie. E Noè capì...". La presenza della gente a
questa festa, ancor oggi è più massiccia che non il
giorno di Pasqua. Anticamente poi in questo giorno, come attesta
l'elenco ricordato nel 1718, oltre che messa cantata e il 'Passio
solenne ad usum religionis', il predicatore parlava del Purgatorio.
Questo accostamento con la festa dell'Ulivo non è puramente
gratuito, ma ha un suo preciso significato: la morte è il
passaggio ad una altra vita; le Anime del Purgatorio un giorno potranno
godere della nuova vita" (P.A. CIUCCI- D. FUMAGALLI, "Una Valle da
scoprire. Valle del Randaragna dell'Alta Val del Reno, Bologna, 1981,
p. 210). Una
citazione, oltreché
singolare, di enorme interesse perché ci consente di
rintracciare nella memoria collettiva di questa festività non
solo la sopravvivenza del rito arboreo germanico - longobardo
(rappresentato dall'ulivo), ma anche la sopravvivenza del rituale della
"pertica" (rappresentato dalla colomba): "Nella
cultura longobarda le perrticae
erano praticamente lunghe aste sormontate dalla riproduzione di una
colomba: quando una persona moriva lontano da casa oppure risultava
dispersa in battaglia e quindi non si poteva celebrare il funerale, i
famigliari al posto della sepoltura piantavano nel terreno una di
queste aste con la colomba, orientata verso il punto in cui si pensava
fosse morto il proprio congiunto" (S. ROVAGNATI, I Longobardi, Xenia,
Milano, 2003, p. 102). "Si quis enim in aliquam
partem aut in bello aut quomodocumque extintus fuisset, consanquinei
eius intra sepulcra sua perticam figebant, in cuius summitate columbum
ex ligno factam ponebant, quae illuc versa esset ubi illorum dilectus
obisset" (P. DIACONO, "Historia Longobardorum", V, 34). Del
resto anche i luoghi di culto
cristiani nascondono appena una più antica realtà sacra
di tipo arboreo celtica o germanica (es: la Madonna dell'Acero e la
Madonna del Faggio). Anche il cosiddetto "Miracolo della Quercia"
all'origine della processione del Venerdì Santo a Quarrata (P.
DE SIMONIS - C. ROSATI, "Atlante delle tradizioni popolari nel
pistoiese", M&M Artout, Pistoia, 2000, p. 78)sembra fatto apposta
per esorcizzare e cristianizzare antichi riti germanici di adorazione
degli
alberi (in tema di coincidenze segnaliamo che per Frazer il culto di
Baldr / Baldur e quello della quercia tendono ad identificarsi. cfr. J.
G. FRAZER, "Il ramo d'oro", Newton Compton Editori, Roma 1999, p. 734). LE
ROGAZIONI Per Rogazioni si intende
delle particolari processioni di ordine
penitenziale nelle quali si supplica il Signore per le diverse
necessità umane, soprattutto per il raccolto. Diffuse nel
pistoiese (San Marcello Pistoiese, Piteglio e altre località) e
in Alto Reno (ad esempio nel Comune di Granaglione (cfr. P.A.CIUCCI -
D.FUMAGALLI, "Una valle da scoprire. Valle del Randaragna dell'Alta Val
del Reno", Scuola Grafica Salesiana, Bologna, 1981, p. 212)) le
rogazioni paiono ricondursi ad "un'usanza di origine indogermanica,
tramandata da tutte le tribù del periodo franco fino
all'età moderna" (S. MATINI, "Lo spazio sacro nella Firenze
medicea", Loggia dei Lanzi, Firenze, 1995, p. 30). Ci domandiamo, a
questo punto, se oltre ai franchi la tradizione indogermanica da cui ha
tratto origine l'usanza delle rogazioni non appartenesse anche ai
longobardi. Un particolare tipo di
rogazione, il cosiddetto "bacio dei Cristi"
ancora praticato a Gavinana, sopravvive anche in alcune località
alpine: "Neanche il bacio delle
croci si può considerare un segno
originale del luogo. Il "bacio" si celebra ancora nella Carnia nello
stesso giorno ed è la traccia di un'antica consuetudine di
cortei che si incontravano ai confini delle comunità
parrocchiali e in un caso anche su un ponte di confine tra Italia ed
Austria. Si trattava di una cerimonia talmente sentita dalla gente da
potere essere piegata anche a forme di potere. Nel periodo feudale in
Carnia i vescovadi più forti imponevano infatti il bacio di
sudditanza a quelli più deboli" (P. DE SIMONIS - C. ROSATI,
"Atlante delle tradizioni popolari pistoiesi", M&M Artout, Pistoia,
2000, p. 68). Anche a livello delle
normali processioni riteniamo di poter
scorgere, accanto alla tradizione romana delle "Lustrazioni", ancora
l'eco di antiche ritualità germaniche: "Reudigni, Avioni, Angli,
Varini, Eudosi, Suardoni, Nuoitoni sono
protetti da fiumi e foreste. Presi singolarmente non hanno nulla di
notevole, se non che condividono il culto di Nerthus, la Terra - madre,
e pensano che questa si interessi delle vicende degli uomini e sia
trasportata in processione tra i popoli. Su un'isola dell'oceano sorge
un boschetto incontaminato che ospita un carro dedicato alla dea,
coperto da un telo: soltanto a un sacerdote è lecito toccarlo.
Costui percepisce la presenza della dea nella parte più interna
del santuario e le si pone al seguito con grande venerazione mentre sul
carro viene trainata da giovenche. Seguono giorni di gioia, e sono
luoghi in festa quelli che la dea si degna di visitare come ospite"
(TACITO, "Germania", XL, 2 - 3). Nelle processioni
cristiane, quindi, il popolo romano e il popolo
longobardo si ritrovavano uniti nel nome delle loro diverse ancestrali
ritualità, ancestrali ritualità che sono sopravissute
fino a non molti anni addietro come ci illustra il seguente passo
tratto dal Dizionario Toponomastico del Comune di Sambuca Pistoiese
(Pistoia, 1993, p. 125): "Al tempo delle rogazioni,
nella giornata del 25 aprile,
festività di San Marco, si faceva una processione da Posola a
Canal di Sasso di Sotto per benedire i campi e le stalle. Nei luoghi di
sosta della processione si costruivano dei piccoli altari con offerte a
base di uova e formaggio". Anche in questo caso
appare forte la suggestione degli antichi culti
della primavera germanici che prevedevano offerte alla dea Eostrea a
base di uova. E forte è anche la suggestione dell'offerta del
formaggio, considerato che i popoli germanici erano tutti dei grandi
allevatori di bestiame, che i longobardi erano usi sacrificare teste di
capre (dalla capra al suo prodotto) e che, infine, anche la mucca
rivestiva per gli antichi popoli germani una importanza fondamentale
nella sfera del sacro (si pensi alla vacca Andumbla). L'UOMO SELVATICO E LA DONNA GATTO Come in
altre zone della penisola
italiana anche in Alto Reno (vedi Nueter, 1981, n. 2, p. 3 - La Musola,
1972, n. 12, p. 67) esiste la leggenda dell'Uomo Selvatico ('ommo
salvadgo' a Pavana). Tale tradizione è tuttavia di tipo
germanico e particolarmente diffusa lungo l'arco alpino (es: i
Salvadegh del Tirolo). Alcune leggende sull'uomo selvatico sembrano
peraltro rifarsi alla presenza di consorterie di Lambardi, attribuendo
agli stessi tuttavia un connotato fortemente negativo, ad esempio a
Carpineta di Camugnano: "Gli
Arimanni o Execitales si
trasformarono da guerrieri liberi ... in una classe di possessores che
racchiudeva in sé stessa, come pegno del suo predominio, i
valori e gli oneri della propria tradizione germanica... Dal clero,
dalla piccola borghesia cittadina e dal popolo rurale erano visti con
disprezzo a ricordo forse delle prime violenze e in presenza di
rapporti economici e politici vessatori... Tracce di questi conflitti
etnico - sociali sono presenti in alcune leggende... Nei pressi di
Camugnano, il feudatario del luogo assunse i panni, nell'immaginario
popolare, dell'uomo selvatico. Ecco la storia. Il 'selvatico' aveva
costretto con la forza una ragazza a diventare sua amorosa. Gli
abitanti di Carpineta, ove la ragazza viveva, nulla potevano fare per
contrastare questo rapporto. Ma la ragazza non si fece intimidire:
'invitato' in casa il fidanzato con un tranello gli fece depositare la
spada [per andare alla messa] (non era conveniente infatti che un
cristiano si recasse alla Santa Messa armato), e al ritorno [dalla
messa] con la stessa spada l'uccise" (Savena Setta Sambro, n. 10, 1996,
pp. 26 - 27). Nella
novella il "pecoraro a corte" pubblicato nelle "sessanta novelle
popolari pistoiesi" (titolo originale "Il Figliolo del Pecorajo")
compare, a inizio racconto, una figura che già nella traduzione
di Italo Calvino rimanda all'uomo selvatico, ma che nella versione
originale del Nerucci ne risulta ancora più affine. Segnaliamo,
come singolare
coincidenza, l'esistenza di donne che diventano gatti sia nell'Alto
Reno (secondo un racconto di Cecchi Luciana di Porretta) che presso i
Walser. Rimanendo in tema di gatti ricordiamo come fino alla fine degli
anni '40 del XX secolo sopravvisse a Candeglia (XIV)
la benedizione del cibo del gatto durante la
festività di Sant'Antonio Abate (P.DE SIMONIS - C. ROSATI, Op.
cit., p. 126). Personalmente ci piace pensare che tanto interesse per
il gatto possa essere un lascito dell'interesse che i popoli germani
avevano per questo felino (animale sacro a Freya, dea dell'amore, e
legato al mito del dio Thor). Sempre
nel campo delle tradizioni vale
la pena ricordare, nel pistoiese, una tradizione identica a quella
tedesca dell'Eierollen (o Eierschieben): "Dal
cosmo all'argine del torrente
Stella: da dove i bambini di San Biagio facevano rotolare uova sode
colorate" (P. de Simonis - C. Rosati, "Atlante delle tradizioni
popolari pistoiesi", M&M Artout, Pistoia, 2000, p. 67). Decisamente
più difficile da
ricostruire è la tradizione del vischio a Natale (comunque
attestata in una realtà spaziale ben più ampia di quella
della nostra ricerca e di probabile importazione), una delle tante
interpretazioni la vuole
comunque legata al mito di Baldur: Baldur, figlio di Odino (capo di
tutti gli dei) e della dea Frigga, era amato da tutti suscitando, in
tal modo, l'invidia di Loki che minacciò di ucciderlo. Frigga
ordinò, così, a tutte le creature di non danneggiare suo
figlio, ma tralascio il vischio che era "troppo giovane per giurare".
Da un ramo di vischio Loki ricavò l'arma che uccise Baldur.
Accortasi della morte del figlio, la dea Frigga iniziò a
piangere sul suo corpo e le lacrime della dea, a contatto con il
vischio, si trasformarono in perle. Secondo James G. Frazer a questa
mito scandinavo si devono far risalire le tradizioni della raccolta del
vischio e dell'incendio di fantocci (cfr. J. G. FRAZER, "Il ramo
d'oro", Newton Compton Editori, Roma, 1999, pp. 673 ss.). Non
sarà, a
questo punto, inutile ricordare che la località lizzanese di
Segavecchia pare prendere il nome dalla tradizione di segare e dare
alle fiamme un fantoccio che, evidentemente, ripercorre il mito di
Baldur ma invertendo il significato (da positivo a negativo) della
leggenda (cfr. in proposito "La Musola", n. 30, 1981, pp. 248 - 249 e
"E... viandare", n. 3, 2004, pp. 86 - 88). (XV)
IL MONDO DELLE FIABE Il modo
migliore per iniziare questo
paragrafo è, sicuramente, una testimonianza di Francesco Guccini: "Dopo,
col passare degli anni e
l'arrivo di un'età differente, cominci ad intuire più
cose e a raccogliere indizi, ad accorgerti di fatti. Prima
disordinatamente, qua e là: a scuola ti parlano della regina
longobarda Teodolinda, del suo tesoro fra cui una chioccia con i
pulcini d'argento e dici: 'ma io questa storia l'ho già
sentita', e ricordi la leggenda che ti hanno raccontato, quella della
regina Selvaggia di Sambuca, nemica della regina di Treppio e con lei
in eterna battaglia, e che morta fu seppellita sotto ad un pero col suo
tesoro, costituito, guarda te, da una chioccia e pulcini d'oro, che
invano cercammo, da ragazzini, dentro e nelle vicinanze della torre del
castello. Coincidenza? Come può una storia vera e tangibile
diventare leggenda? Come può essere che anche da noi sono
passati i longobardi?" (AA.VV., "Torri: storia, tradizioni, cultura",
Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003, p. 14). Varianti della leggenda sambucana della chioccia d'oro sono ben attestate in altre zone della toscana e del pistoiese, ad esempio nella cosiddetta "Svizzera Pesciatina": Altre
testimonianze del mondo delle
fiabe non sono altrettanto evidenti, ma sotto certi aspetti risultano
ancora più interessanti perché possono essere la
testimonianza dei miti
più antichi della popolazione longobarda. Ad esempio la storia
del pesce magico e del pescatore narrata in una favola di Montale
Pistoiese sembra risalire direttamente al mito germanico del dio Loki e
del nano Andvari presente in saghe come il Canto dei Nibelunghi
(Nibelungenlied) o l'Edda di Snorri: Da "il Drago delle sette teste" (Montale Pistoiese) "Un bel
giorno il pescatore se
n'andò con le sue reti a pescare nel lago vicino, e gli
riuscì d'acchiappare un pesce di gran bellezza e grossezza.
Appena tratto fuor d'acqua, il pesce prese a supplicare l'uomo, che si
contentasse di lasciarlo andar via, e in cambio lui gli prometteva
d'insegnargli uno stagno in quei dintorni, dove avrebbe potuto in un
momento fare una pesca ben più ricca. A sentir parlare un pesce,
il pescatore s'impaurì, e senza starci a pensare diede la
libertà alla bestia, che subito; sparì giù
nell'acqua. Ma il pescatore, andato a quello stagno, in due o tre
retate di pesci, ne acchiappò tanti, che tornò più
carico d'un ciuco" (fiaba tradizionale di Montale Pistoiese raccolta in
"Fiabe Italiane" a cura di Italo Calvino, Mondadori, Milano, 2004, p.
276). Dalla "Edda di Snorri" "Odhinn
mandò Loki in
Svartalfaheimr, e là egli giunse presso un nano che si chiamava
Andvari e stava nell'acqua in forma di pesce. Loki lo catturò e
pose come condizione per salvargli la vita che gli desse tutto l'oro
che aveva nella sua casa di pietra. Quando giunsero alla roccia, il
nano mostrò tutto l'oro che possedeva: si trattava di parecchia
moneta" ("Edda di Snorri", Rusconi, Milano, 1988, p. 182). Un altro
racconto che pare ricondursi
direttamente alla figura del dio Odino lo si ritrova nella fiaba
altorenana dello "Abate senza pensieri": Da "l'Abate senza penséri" "A jera
una volta un grosso segnore
c'al s'chiamava l'Abate senza penséri. Un dì c'l'andava e
s'incontratte con al Re e sto Re al disse: 'Comme t'chiammi?' - 'Mi m'
chiammo l'Abate senza penséri'. 'Donca, ti di penséri
en'n t'n'a!'. E lu al rispondette: 'Mi di penséri i n'n o mai
avù' - 'I t'i farò vgnir io i penséri! Se drento a
tre dì en'n t'me spiegherai sté tre cose, per ti a i
srà al tajo dla testa" (fiaba tradizionale di Badi raccolta in
"Saggi folklorici in dialetto di Badi" a cura di Tito Zanardelli,
Zanichelli, Bologna, 1910, p. 19). Da "La sfida del gigante" (dall'Edda Poetica) "Odino
si recò sotto smentite
spoglie al palazzo del gigante Vafthrudnir e lo sfidò: 'Ogniuno
di noi dovrà rispondere a un certo numero di domande rivoltegli
dall'altro; chi non risponderà anche a una sola domanda,
perderà la testa'". (in D. NOVACCO, "Dei, Eroi e cavalieri
dell'età medioevale", Gherardo Casini Editore, Roma, 1987, p.
28). Nella
cosiddetta "Fola del nonno" (una
favola tradizionale di Lizzano in Belvedere pubblicata alle pp. 127 ss.
della rivista "La Musola" n. 31 del 1982) compare anche la figura del
nano (nel testo si usano i termini gnomo e nano come sinonimi). Come
è noto la tradizione del nano è nordico - germanica e
normalmente compare solo nella zona alpina dell'Italia (XVI).
Il caso del nostro nano lizzanese è,
oltretutto, ancora debitore in qualche modo della mitologia germanica: Da "La fola del nonno" "Batteva
l'ultimo colpo a mezzanotte e
venne lo gnomo e domandò: -Cosa mi
dai in cambio del potere? - E
lei - Nulla ho più, e nulla posso dare- -Hai oro
ancora?" (La Musola, n.
31/1982, p. 126). Ritroviamo la figura del nano, peraltro, anche in altre favole lizzanesi come la "Fola di sette corvi" ("la favola dei sette corvi"): "Lassù in vetta al Corno e' gh'era 'na tana e drent a c'la tana i' ghe stévne sette nani, ch' i' finne un bel inchin ai corvi e i' s' missne subbito al sò servizio" (cfr. G. FILIPPI, "Catuditto?", Gli Scritturini della Musola, Lizzano in Belvedere, 1999, p. 178) Come si vede anche i nani lizzanesi, come i nani della favolistica germanica, vivono nelle viscere dei monti
E come
non ricollegare la fiaba di
Montale Pistoiese che ha come protagonista una "testa di bufala", viva
e parlante pur senza corpo (cfr. "Fiabe Italiane" a cura di Italo
Calvino, Mondadori, Milano, 2004, pp. 349 - 355), ai culti longobardi?: "Riti
pagani compiuti dai Longobardi
in Italia sono attestati nei "Dialogi" di Gregorio Magno, in cui si
parla di due cerimonie: una è solo accennata, l'altra è
descritta in modo particolareggiato e riferisce l'immolazione di una
testa di capra, una danza e canti sacri. Presso i Germani era
consuetudine sacrificare degli animali decapitandoli e usare i crani
per i loro culti; la capra poi era strettamente legata alla
divinità germanica Thor / Donner" (S. ROVAGNATI, "I Longobardi",
Xenia, Milano, 2003, p. 101). E
infatti nella "Gylfaginning" il dio
Thor sfama sè stesso e i suoi compagni con due capri, di cui fa
conservare le ossa e le pelli, per poi con il suo martello resuscitare
gli animali stessi a partire dalle ossa e dalle pelli conservate. Ancora
più esplicito in
proposito è il contenuto della fiaba "barba di capra" raccolta
nel 1910 dallo Zanardelli a Badi (frazione di Castel di Casio): "E in
stó mentre che la
fióla al guardava per tóji su, a s'stricatte la cassa e
ai i mozzatte la tèsta. La madre, a la svèlta,
andè a tóne unna d'cavra é a i mésse quella
é pò a la mandatte via" (dai "Saggi folklorici in
dialetto di Badi" di T. Zanardelli, Zanichelli, Bologna 1910, p. 17). Peraltro anche nella favola lizzanese del caprone (un caprone parlante) l'ovino è destinato a perdere la testa: "Chiappò l'acétta e el taJò el collo al cavron". Per quanto attiene la toponomastica sembrerebbe che una tenue traccia di questo culto sia sopravvissuto nel nome Monte d'oro (un rilievo nei pressi di Bombiana); secondo la rivista Gente di Gaggio (n. 15, luglio 1997, p. 126) il nome Monte d'oro deriverebbe da una leggenda che vuole che in questo monte s'appalesi una capra d'oro guidata da un demonio.
Di
crudeli pratiche germaniche
rimangono (o sembrano rimanere) ancora labili tracce in alcune fiabe
locali come quella badese della "Donna che non voleva far niente" Da "La Donna che non voleva far niente" Tonio
voleva svergognare sua moglie e
perciò si era messo d'accordo con quelli della festa.
Comandò un ballo; ballarono. Quando furono al centro dell'aia
lui svelto le tirò via la mantellina e lei restò tutta
nuda con addosso soltanto le sue acce, una davanti e una
dietro. Allora tutti si misero a schernirla, uomini e donne" (FIABE
ROMAGNOLE E EMILIANE, Mondadori, Milano, 2000, pp. 63 - 65) Da "Germania" di Tacito "Gli
adulteri sono rarissimi presso
queste genti così numerose; la punizione per tale colpa è
immediata ed affidata al marito: di fronte ai parenti stretti caccia di
casa l'adultera, denudata e coi capelli rasati e, spingendola con la
frusta, le fa attraversare tutto il villaggio" (TACITO, "Germania",
XIX, 1) Rimanendo
in tema di fiabe e leggende
vale la pena ricordare anche la principessa Orsina: E' noto
che la Valle, il paese, il
monte e il Torrente "Orsigna" prendono il loro nome dal fatto che
l'intera zona era abitata da orsi. Vi è tuttavia una originale
leggenda sull'origine del nome Orsigna e che parla di una principessa: "Una
altra origine del toponimo la si
può far risalire ad una mitica principessa Orsina, i resti del
cui castello si potevano scorgere ancora fino a cinquant'anni addietro
nelle vicinanze dell'attuale abitato. Si narra che tale principessa si
servisse di un corpo di soldatesse, novelle amazzoni, che per
ritemprarsi d'estate dalle fatiche della naja, andassero a prendere il
sole in una vicina località che da allora prese il nome di
Poggio delle Ignude" (MAURIZIO PANCONESI, "Presente e passato tra gli
Appennini: Alta Val del Reno e Badia a Taona", La Vaporiera,
Cento, 2003, p. 105). Ora
è evidente che la
tradizione locale ripercorre il mito di Artemide / Diana (non sarà fuori luogo ricordare come etimologicamente il nome Artemide risulti collegato all'orso (greco árktos da cui anche 'artico') e come una delle sue ninfe, Callisto, fu da Artemide trasformata in orso), ma è
altrettanto evidente che la stessa tradizione sembra ricondursi ad una
leggenda longobarda citata da Paolo Diacono nella sua "Storia dei
Longobardi": "Si
racconta che una volta i
Longobardi, mentre erano in marcia col loro re, giunsero alla riva di
un fiume; impediti dalle Amazzoni ["Amazonibus" nell'originale latino]
di procedere oltre, Lamissione a nuoto andò a combattere in
mezzo alla corrente con la più forte di esse e la uccise,
procurando a se stesso il vanto della gloria e ai Longobardi il
passaggio. Infatti tra le due schiere si era stabilito in precedenza
questo: se l'amazzone avesse vinto Lamissione, i Longobardi si
sarebbero ritirati dal fiume, ma se, come avvenne, essa fosse stata
vinta, ai Longobardi sarebbe stato concesso il diritto di attraversare
quelle correnti. Tuttavia la cronologia di questo racconto risulta
avere uno scarso fondamento di verità. Infatti, a tutti coloro
che conoscono le antiche storie, consta che la stirpe delle Amazzoni fu
distrutta assai prima di quando poterono accadere questi fatti; a meno
di pensare che, siccome i luoghi nei quali la tradizione li colloca non
erano molto noti agli storici e a stento sono stati ricordati da
qualcuno, in essi sia potuta sopravvivere la stirpe di tali donne.
Anch'io ho sentito dire infatti da certuni che ancora oggi nelle
regioni più interne della Germania vive una tribù di
queste donne" (P. DIACONO, "Storia dei Longobardi", Rizzoli, Milano,
2000, p. 169). E sia
detto, sia pure per inciso, che
effettivamente è esistita una popolazione germanica guidata da
amazzoni, come testimonia Tacito: "A
contatto con i Suioni sono le
tribù dei Sithoni. Simili quanto a tutto il resto, in una sola
cosa differiscono: li governano le donne" (Tacito, Germania, XLV, 6) Anche
Jordanes, nella sua "Storia dei
Goti", narra delle Amazzoni. Anzi per Jordanes le Amazzoni sarebbero
delle donne del popolo gotico: "Le
femmine dei Goti, attaccate da una
popolazione vicina, resistettero fortemente a quei maschi che le
avrebbero volute per preda, respingendo con somma ignominia di questi
ultimi, i nemici invasori. Esaltate dalla vittoria ed eccitandosi a
vicenda ... esse volevano e difendere la propria terra ed attaccare
quella altrui" (JORDANES, "Storia dei Goti", Tea, Milano, 1999, p. 23). Naturalmente
da un ambito di ricerca
così ristretto si sono esclusi volutamente riferimenti a fiabe
ampiamente diffuse nel continente europeo come Cappuccetto Rosso (che
risulta presente in Francia, Germania, etc.). Tuttavia, e facendo
comunque salvo quanto sopra, fa pur sempre una certa impressione
rintracciare nella lizzanese "fola del tree ocarine" (fiaba
tradizionale pubblicata sulla rivista locale La Musola (gennaio /
giugno 1972)) la tradizionale fiaba inglese dei tre porcellini,
così come desta un qualche stupore ritrovare nella pistoiese
favola della "Trappola della strega" un racconto tradizionale tedesco
riportato nei "Discorsi Conviviali" di Martin Lutero (cfr. C. LAPUCCI,
"Il libro delle veglie", A. Vallardi, Milano, 1988, p. 85). Ma ancora
più impressionante appare l'analogo spunto drammatico che muove
la fiaba montalese "Pelle di vecchia" e la tragedia shakespeareana del
"Re Lear". Si riporta in ogni caso, e a puro titolo di esempio, il
testo completo della favola delle tre ocarine ("fola del tree ocarine"). La fola del tree ocarine "E gh
era na volta na donna c l a
pognì na galina. E in mezzo a gl' ove d galina la g misse tree
ove d oca. Quande e nascì i pirin, i pirin i andonne con la
chioccia e gl' ocarine e gl' andonne da per sì. E gl' andavne
gio per la Viaccia. E la più granda la g disse: "Savì vu
quel che e fen adesso? E c' fen na bella caslina". E chegliatre: "Ma
com fareni mai a fac' la caslina?". E la più granda: "E c' caven
tutte el penne e e c' fen na caslina che st inverno e sten in ca'". E
alora e s cavonne tutte el penne e e s fenne na caslina. Quando i
avinne fnì la caslina, la disse la più granda: "Asptaa
mo, che adesso e vo a veddre comme e s ghe sta". L'andò drento.
L'asrò l'usso. E la disse: "Adesso staa mo forra su vatre, che
mi e nun ghe vojo". Alora chegliatre doo ocarine via che s andonne,
cridando. E doppo la mzana la disse: "Mo perchè nuc c'fen na
caslina con i spunctigon?". E s cavonne tutti i spunctigon e e s fenne
na caslina. E po doppo la mzana l andò drento. L'asrò
l'usso. E la gh disse: "Joh, comme se sta ben! Ma ti nun t ghe vojo,
brutta bindella". E alora la più c'nina via ch la s andò,
cridando. Quand la fu un pezzo in giò per la Viaccia la s
incontrò un muradore che e gh disse: "C atu ti da cridare, bella
ocarina? Lee la g contò tutti i soo quee e el soo desgrazie.
Alora el muradore, ch l era un più bon ommo, e s misse
dré' e e gh fe' na bella caslina ed muradura. Col so usso d
leggno e na bella fnestrina; e prinfin la fogolarina. Alora l'ocarina
l'andò drento, l aringraziò el muradore, e la disse:
"Joh, comme se sta ben!". Doppo e gnì notte. E, quande e fu
buro, buro, saltò forra el luvo. L'andò da la primma
ocarina e gli disse: "Ocarina, bella ocarina, vertme l'usso!". "No,
brutto luvaccio, che ti tu m voo mangdiare!.". "Averta l'usso
consquantinò amollo un scorgion che t butto giò el
cason". L'ocarina dalla pavura e n g avertò brisa l'usso. Alora
ed luvo el fé' un scorgion, el buttò gio el cason e s la
mangdiò. La sira doppo el luvo l'andò da la mzana e gh
disse: "Ocarina, bella ocarina, vertme l'usso! ". "No, brutto luvaccio,
che ti tu m voo mangdiare!". "Averta l'usso consquantinò amollo
un scorgion che t butto gio el cason". L'ocarina dalla pavura e n g
avertò brisa l'usso. Alora el luvo el fé un scorgion, el
buttò gio el cason e s la mangdiò. Clatra sira
l'andò da la più c'nina e e gh disse: "Ocarina, bella
ocarina, vertme l'usso! ". "No, brutto luvaccio, che ti tu m voo
mangdiare!". "Averta l'usso consquantinò amano un scorgion che t
butto gio el cason". L'ocarina dalla pavura e n g avertò brisa
l'usso. Alora el luvo el fé un scorgion, mo la ca'
l'avanzò su, perchè l'era d muradura. Alora l'ocarina via
c l andò d fureggio a appiare el fogo in t la fogolarina e la
misse su na caldrina piena d'acqua. Quant l'acqua la s misse a bojre,
l'avertò la fnestrina e gio ch la ficcò tutta l'acqua in
cò al luvo. Ch l avanzò cotto e strinà, negro,
negro comme un tizzo" (fiaba tradizionale lizzanese in "La Musola",
rivista lizzanese, n. 11, gennaio - giugno 1972, p. 51). Non
andrà comunque mai
dimenticato che le coincidenze, anche se straordinarie, possono essere
semplicemente coincidenze. Ad esempio le straordinarie somiglianze tra
il mito eddico del matrimonio tra Trym e Thor e la trama della Casina
di Plauto (il grande commediografo latino morto nel 184 a.C.) possono
essere spiegate solo ricorrendo al caso *********************************************************** IL
MATRIMONIO TRA THOR E TRYM Una
mattina Thor scopre al risveglio
che il suo martello Mjölner è
sparito. Chiesto consiglio a Loki, il dio più astuto in Asgard,
scopre che i gigante Trym lo ha rubato allo scopo di potere sposare la
dea Freja. Thor allora decide di camuffarsi nei panni di Freja.
Durante il banchetto di nozze Thor mangia un bue intero,
otto salmoni e 300 litri di birra. Trym rimase stupefatto, ma Loki
rispose: CASINA
DI PLAUTO Di
Casina, una trovatella, si sono
invaghiti il vecchio Lisidamo e il figlio di lui, Eutinico. Essi hanno
indotto, l’uno il proprio fattore, l’altro il proprio scudiero, a
chiedere la mano della fanciulla, per poterne poi essi stessi disporre.
Lisidamo, vistasi intralciare la strada dal figlio, lo spedisce
all’estero, ma la moglie del vecchio, che conosce le intenzioni del
marito, prende le parti del figliolo assente. Poiché Lisidamo e
sua moglie non riescono ad accordarsi, decidono di ricorrere alla
sorte. Questa favorisce il fattore. Si preparano le nozze, ma in luogo
di Casina viene presentato come sposa Calino, lo scudiero, travestito
da donna, che, approfittando dell’oscurità della stanza in cui
viene condotto, bastona il fattore e Lisidamo. ****************************************************************** Questo a meno che non rispolveriamo la vecchia ipotesi che i latini condividevano coi germani un'origine nordica o, comunque, settentrionale: "Bisogna dunque presupporre che le sedi preistoriche dei Latini fossero in un territorio confinante con quello germanico, i cui estremi limiti meridionali potevano arrivare nel 1200 - 1100 a.C. forse fino al corso inferiore dell'Elba e al corso medio - inferiore della Weser" (A.Scaffidi Abate, "Introduzione allo studio comparativo delle lingue germaniche antiche", Patron, Bologna, 1992, p. 227). Le concordanze linguistiche tra latini e
germani al confronto di tutte le altre popolazioni indeuropee (dai
celti ai baltici, dai greci agli slavi, agli illirici, etc.) sono tali,
infatti, da potere essere spiegate solo con un lungo periodo di
vicinato (ibid. p. 227) e, pertanto, come è stato possibile reciprocamente influirsi nella lingua, allo stesso modo logicamente si dovrà ammettere una altrettanto profonda e reciproca influenza culturale (è possibile dunque che alcune delle tradizioni più antiche di germani e latine rintracciate anche in questo lavoro abbiano una comune origine "nordica") Ma i casi di collegamento tra la tradizione mitica germanica e quella latina sono molto più numerosi e, addirittura, si mischiano con la tradizione colta italiana (ad
esempio nell'Orlando
Innamorato di Matteo Maria Boiardo)
IL
SANTUARIO DI
MONTOVOLO Montovolo
in realtà è un
poco fuori dall'area di interesse della nostra ricerca, ma merita di
essere menzionata perché rappresentò una delle estreme
propaggini settentrionali dei territori longobardo - pistoiesi. A
Montovolo sopravvivono due strane
leggende che noi vediamo ricollegate proprio ai longobardi: La prima
narra di un serpente,
nascosto sotto una grossa pietra (secondo una variante della stessa
leggenda il serpente vivrebbe nascosto sotto un pozzo od una galleria)a
custodia di un tesoro, che aspetta un bacio da una giovane per
riprendere le sembianze umane. Considerato
che Montovolo rappresenta
un'importante area sacra fin dall'antichità (in proposito
c'è un'interessante ipotesi del prof. Baccolini
dell'Università di Bologna su Montovolo come centro oracolare
etrusco) non ci pare difficile scorgere nella leggenda la sopravvivenza
di un antico culto longobardo della vipera citato nella 'Vita Barbati
episcopi beneventani' (cfr. S. ROVAGNATI, "I Longobardi", Xenia,
Milano, 2003, p. 101). La
seconda leggenda narra di
giganteschi guerrieri che combattevano tra loro a Montovolo. E qui
è ancora più
facile scorgere l'eco delle battaglie sostenute tra i bizantini e i
longobardi per il possesso di quel territorio. Una
importante versione della stessa
leggenda si ricollega, invece, alle guerre tra Longobardi e Franchi: "La
leggendaria figura dei 'paladini'
che è molto viva e presente nella tradizione popolare, si
può fare risalire alla probabile presenza dei Franchi di Pipino
giunti in quei luoghi nel 754 per combattere i Longobardi, per invito
di Papa Stefano III. Nelle testimonianze della gente i Paladini sono
raffigurati come biondissimi giganti dotati di una enorme forza che
combattevano scagliando pesantissimi palanchini di ferro da Montovolo
fino a Monte Acuto Ragazza e fino a Lagaro" (Nueter, anno 2, n. 4,
1976, p. 16). Sembra
peraltro che a Montovolo
esista una leggenda relativa a un "caprone diabolico" (Savena Setta
Sambro, n. 20, 2001, p. 9)che, a questo punto, sembrerebbe il relitto
di antichi riti longobardi che prevedevano l'immolazione di capre. Del parere che le leggende della zona di Montovolo siano di origine longobarda e germanica è anche lo storico locale Paolo Guiodotti che ha scritto per i tipi della Cooperativa Libraria Universitaria Editrice di Bologna: "tracce longobarde e franche sono rilevabili nelle leggende, forti attorno a quel solitario gigante del Vigese e delle sue punte minori di Canteglia e Montovolo, illustrate già dal Rubbiani e dal Palmieri" (P: GUIDOTTI, "Il Camugnanese", Clueb, Bologna, 1985, p. 34).
IL SAN GIORGIO ALL'OMBRONE Nella piccola borgata pistoiese che prende il nome dall'omonima chiesa di fondazione longobarda - e ricordata in un documento del 7 maggio 784 - è sopravvissuta fino a tempi recenti una tradizione di possibile origine longobarda o comunque germanica (si tenga presente che presso i Germani il cavallo ebbe pure una funzione rituale): durante la processione che si svolgeva il 23 aprile in onore del santo, protettore di cavalli e cavalieri, partecipavano anche gruppi di uomini a cavallo. LA NOTTE DI VALPURGA E I MAGGI DI PRUNETTA Nel paragrafo relativo al "Culto degli alberi" abbiamo illustrato la tradizione dei Maggi nell'Alto Reno e nel pistoiese, tradizione che abbiamo ricondotto in parte ad antiche tradizioni latine e, in parte, ad antiche tradizioni germaniche. In una canzone del Maggio di Prunetta (montagna pistoiese) è tuttavia presente uno strano riferimento ad atmosfere oscure che regnano nella notte del 30 aprile che, almeno ad una prima lettura, sembrano rimandare alla tradizione germanica della Notte di Valpurga: ALTRE TRADIZIONI Rimanendo
in tema di suggestioni
longobarde o germaniche presenti in Alto Reno e nel pistoiese
ricordiamo anche tre tradizioni locali (tutte legate al mondo
dell'acqua) che, in qualche modo, suggeriscono una qualche parentela
con le saghe e le tradizioni longobarde o nordico - germaniche: In primo
luogo la Guazza di San
Giovanni: in località come Piteglio o Gaggio Montano era
tradizione che nella
giornata di San Giovanni (24 giugno) le donne si
recassero a piedi nudi, prima dell'alba, nei campi camminando nell'erba
alta e raccogliendo la rugiada del mattino. Questa tradizione, presente
anche in località estranee alla nostra area di interesse,
può in parte ricollegarsi alla cultura mediterranea (per Plinio
la rugiada è "la saliva degli astri"), ma difficilmente
può essere esclusa una reminescenza dei popoli germanici in
Italia come ben illustra il seguente passo dell'Edda di Snorri: "E
quell'acqua è così
santa che tutte le cose che vengono poste nella sorgente diventano
bianche come la pellicola, detta membrana, che è detto guscio
dell'uovo; così come qui dice: Io
conosco
un frassino irrorato che
si
chiama Yggdrasill, alto
albero sacro, bianco
d'argilla, di
là provengono gocce di rugiada che
cadono
sulla valle; è
sempre verde su
Urdharbrunnr" (Edda di
Snorri, Rusconi, Milano,
1988, p. 87). Peraltro
abbiamo riscontrato la
presenza in una altra regione italiana di una sicura tradizione
longobarda che, guardacaso, pare ricollegare sia la nostra tradizionale
"Guazza di San Giovanni" che le nostre tradizionali "mummie": "Molto
potere, inoltre, viene affidato
alle bocce naturali di pietra, chiamate "geodi" che sono presenti in
alcune zone del monte Playa. Si crede, infatti, che tali geodi,
soprattutto se raccolti nella mattinata del 24 Giugno, festa di San
Giovanni Battista, e poi infissi ai muri o collocati nelle fondamenta
di una casa in costruzione, esercitino un potere protettivo. Alcuni
studi hanno dimostrato che tali pietre, altrove chiamate "mamme
longobarde" o "pocce lattarie" sono da ricollegarsi a riti di
fertilità in zone ricche di acque sorgive (come indica appunto
il nome del paese) e alla presenza di insediamenti longobardi" (http://www.scuolevalledelsagittario.it/INTRODACQUA/TRADIZIONIRISCOPERTE.htm). E di
longobardo in questa tradizione
riscontriamo anche due ulteriori prove nel nome stesso della tradizione
("Guazza" da "Wazzer") e nel Santo a cui la tradizione è
dedicata (San Giovanni Battista a cui i Longobardi si legarono a
seguito della conversione al cattolicesimo di questo popolo prima
dedito al paganesimo e, poi, all'eresia ariana). Peraltro non è
forse fuori luogo ricordare come presso i popoli germani il solstizio
d'estate venne mimetizzato nella festa cristiana di San Giovanni, a cui
resta comunque il nome di midsummer (un relitto della
sacralità del midsummer per i germani si può riscontrare
anche nella storia piena di incantesimi rievocata nel "Sogno di una
notte di mezz'estate di Shakespeare). La
guazza di San Giovanni serviva
anche per preservare oggetti, indumenti e animali da malefici (pertanto
venivano lasciati all'aperto durante la notte del 24 giugno) e a
guarire dalle malattie. Sempre
ai riti legati 24 giugno risale
il tradizionale falò della notte di San Giovanni, tradizione del
falò presente in molte parti d'Europa, Malta compresa. Ai fini
della nostra ricerca, ovviamente, c'interessa il confronto con le
realtà germaniche: Il
confronto con le realtà
germaniche comunque non autorizza in alcun modo ad attribuire
un'origine sicuramente germanica al nostro falò di San Giovanni. Altra
suggestione germanica, a nostro
avviso, può essere rintracciata nella tradizione di lavarsi in
acqua
corrente per proteggere la vista, ad esempio a Pietrabuona: "Il
Sabato Santo, quando sciolgono le
campane, noi ci laviamo il viso ad acqua corrente, perché i
nostri vecchi dicevano che, facendo così, non viene male agli
occhi" (Quaderno della scuola elementare di Pietrabuona, anno
scolastico 1928-29). In
queste tradizioni si coglie,
infatti, il rapporto vista / acqua caratterizzante la stessa figura del
dio Odino: "Là
si recò Allfodhr
(Odino) e chiese di bere un sorso dell'acqua tratta dal pozzo ma non
l'ottenne se non lasciando in pegno il suo occhio" (Edda di Snorri, op.
cit., pp. 82 -83). Come
ultima suggestione suggeriamo il
culto longobardo delle fontane, così ricordato dal grande
storico Muratori: "Sotto i
Re Longobardi, che pure
professavano la legge Cristiana colla lor nazione, apparisce che molti
del rozzo popolo con pazza credulità veneravano certi alberi, da
lor chiamati Sanctivi, come se fossero cose sacre. Gran sacrilegio
avrebbero creduto il tagliarli; sembra ancora che prestassero ad essi
qualche segno di adorazione. Lo stesso rito praticavano verso alcune
fontane. Non sappiamo se in essi onorassero Dio, o i Santi, o i Demonj.
Tuttavia trovando noi chiamati que’ superstiziosi riti Paganiae dagli
antichi, si può credere che fossero reliquie del Paganesimo,
professato una volta da’ Longobardi. Truovansi anche a’ nostri tempi
delle nazioni nella Costa Occidentale dell’Africa infatuate della
medesima superstizione." (Ludovico Antonio Muratori, "Antichità
italiane: Dissertazioni - DISSERTAZIONE LIX - Dei semi delle
Superstizioni ne’ secoli scuri dell’Italia"). Tale
superstizione ci pare tutt'oggi
ben presente considerando che alcuni santuari mariani (pensiamo al bel
santuario della Madonna del Faggio sopra Castelluccio, alla Madonna
della Fonte Nuova nei pressi di Monsummano oppure al Faggio della
Madonna (oggi semplicemente un toponimo) a sud ovest di Ponte dei
Rigoli) sorgono in prossimità di una fontana e / o di un corso
d'acqua. Ma ancora più interessante ci pare la sopravvivenza, in
Alto Reno e nel pistoiese (ad esempio a Piteglio), della credenza
secondo la quale, bevendo alle fontane nelle ore notturne, possano
entrare nel corpo gli spiriti che vivono nell'acqua. Evidentemente
l'acqua delle fontane mantiene ancora un carattere eminentemente sacro
(la parola "sacer" è legata al concetto stesso di "proibito") di
tipo sincretico germanico - latino (le ore notturne sono quelle
tradizionalmente collegate all'Erebo e ad Ecate). Una
variante dello stesso mito vuole
che nei rubinetti delle fontane vivono le anime del purgatorio: "Anche
sotto la gocciola delle
cannelle che non chiudono bene: dove li viene dato noia di più.
Il Purgatorio era quello" (D. MUCCI MAGRINI, "Quando i necci erano il
pane", Provincia di Pistoia, Pistoia, 2002, p. 43). E come
non sentire arrivati a questo
punto gli echi della mitica Thule?:
"Gli
altri abitanti di Thule...
adorano molti dei e spiriti del cielo e dell'aria, del mare e della
terra, come pure altri spiriti che dicono vivano nelle fonti e nei
fiumi; ed assiduamente offrono ogni genere di sacrifici" (Procopio di
Cesarea, "Guerra Gotica", libro II, § 15). Naturalmente
anche la toponomastica
reca tracce di queste credenze, ad esempio nell'Orsigna Pistoiese: "Basta
scorrere i dintorni sopra
Pracchia per trovare, nei nomi, i simulacri di arcane paure. La Fonte
dello Spirito, poco sotto Porta Franca, è un luogo dove ancora
'ci si sente'" (Savena Setta Sambro, n. 15, 1998, p. 80). Che questa e le altre
tradizioni citate sopra siano di origine longobarda (o comunque
influenzate dai culti longobardi) ci pare confermato anche dall'Editto
di Rotari che all'art. 84 recita: "Simili modo et qui ad
arbore, quam rustici sanctivum vocant, atque ad fontanas adoraverit,
aut sacrilegium vel incantationis fecerit, similater medietatem pretii
sui conponat" e cioè: "Allo stesso modo paghi la
compensazione colui che venera un albero che i contadini chiamano
sacro, o le fonti, ed anche colui che fa un atto sacrilego od un
incantesimo" La
tradizione dello spirito del grano come lupo cliccando
qui "mummia" sambucana (PT) SIMBOLI Tra i numerosi simboli
registrati in area altorenana e pistoiese uno
ci ha particolarmente interessato. Si tratta della rappresentazione di
un serpente presente in una casa di proprietà della famiglia
Butelli in località Piazza di Treppio che si è pensato
talvolta di collegare con i Visconti di Milano: "Poco distante dalla
porta d'ingresso è posta una rozza pietra, sulla quale si vede
scolpita una serpe nell'atto di strisciare pel terreno ...a me è
venuto il dubbio che possa trattarsi dell'insegna dei Visconti di
Milano" (A.BIAGIARELLI, "Un'insegna viscontea a Treppio", Bullettino
Storico Pistoiese, Pistoia, 1937, pp. 157 - 158). A nostro avviso, al
contrario, non è del tutto da escludere una sopravvivenza di una
antica tradizione longobarda: i Longobardi, infatti, portavano come
amuleto un serpente azzurro, loro simbolo, in una borsetta appesa al
collo e lo usavano come insegna militare. E', quindi, assai probabile
che lo stesso simbolo sia passato all'araldica delle scolte armate
pistoiesi e, successivamente, a quella di molti "Capitani del Popolo"
della città di Pistoia che fu (lo ribadiamo) fortemente
longobardizzata. Peraltro questa suggestione la riteniamo a maggiore
ragione fondata se consideriamo che in località Villa di
Piteccio (in casa della signora Cristina Cortesi) è stato
recentemente ritrovato un altro stemma recante l'immagine di una serpe
che striscia nel terreno (e, guardacaso, la tradizione locale vuole che
proprio nella zona del ritrovamento ci fosse un distaccamento regolare
di soldati e cavalieri). In ogni caso numerosi altri simboli
meriterebbero un serio approfondimento, ivi compresa la scacchiera
dello stemma pistoiese forse troppo frettolosamente attribuita da
alcuni ai romani (cfr. A. MUELLER HAEGEN - R. F. STRASSER, "Toscana",
Konemann, Colonia, 2001, p. 92) . Per amore di
verità, tuttavia, andrà menzionato anche
un antico mito Maya sulla creazione degli uomini contenuto nel "Popol
Vuh": "Nel momento in cui
parlarono fu compiuto: i manichini, sculture di
legno, [divennero] uomini nell'aspetto e uomini nella parola.
Così fu popolata la terra" ("Popol Vuh", Rizzoli, Milano, 1998,
p. 71). Il che sposta l'ambito di
ricerca da quello della germanistica a
quello più ampio dei miti universali dell'umanità. ******* sulla
questione delle rune clicca anche qui
ANGHERIA L'odiosa pratica
longobarda delle angherie è sopravvissuta in
Toscana e in Alto Reno fino alla prima metà del secolo scorso
(cfr. A. GRAMSCI, "Passato e Presente", Editori Riuniti, Roma, 1979,
pp. 254 - 255 e G. SIRGI, "Montagna, terra di emigrazione", Nueter,
Porretta Terme, 2002, p. 96). In Alto Reno il vocabolo "ANGARIA" (col
significato di angheria) è attestato ancora, ad esempio, nel
dialetto di Treppio (cfr. Nueter, XXVI, 2000, p. 158).
Molto interessante ci pare confrontare la tradizione delle "Angherie" longobarde con quelle più recenti in uso nel pistoiese e nel bolognese tra XIX e prima metà del XX secolo:
SITUAZIONE LONGOBARDA
"I vari fondi che facevano riferimento alla curtis erano poi distinti in terrae massariciae e terrae domenicae (indicate quest'ultime anche con i termini di sundrio o domus culta). Le prime corrispondevano a quei poderi con 'casa'... lavorati da massari residenti sul posto, che dovevano dare al proprietario una quota del prodotto, forse un terzo, oltre ad alcune prestazioni obbligatorie, le cosiddette 'angariae', consistenti nel lavoro gratuito prestato dal massaro per un certo numero di giornate sulle terrae dominicae. Erano queste le terre che il proprietario coltivava direttamente con l'opera degli schiavi domestici (servi et ancillae) ed appunto con le angariae dei massari" (N. RAUTY, "Il Regno longobardo e Pistoia", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003, pp. 104 - 105).
SITUAZIONE PISTOIESE TRA XIX E PRIMA PARTE DEL XX SECOLO
"I patti agrari sancivano un 'contratto' generalmente sempre sbilanciato a favore del padrone che già fin dall'inizio del rapporto poteva registrare sul conto corrente in attivo tutte le spese delle 'stime morte', del bestiame, delle infrastrutture poderali, delle sementi per il primo anno con l'aggiunta di numerose 'regalie' oltre all'obbligo di eseguire una quantità variabile di lavori strutturali per il miglioramento e il mantenimento dei vigneti...I patti colonici che regolavano il rapporto contadino - padrone, prevedevano obblighi aggiuntivi che variavano da fattoria a fattoria: si dovevano portare una determinata quantità di uova durante l'anno, generalmente due capponi, galline e galletti, una parte del maiale, generalmente un prosciutto, qualche volta anche una determinata somma per le fascine recuperate nel podere per cuocere il pane ed anche la prestazione di determinate giornate di lavoro per le donne per le pulizie della fattoria in determinate occasioni stabilite durante l'anno" (AA.VV., "Storia di Pistoia", Vol. IV, Le Monnier, Firenze, 2000, p. 443)
SITUAZIONE BOLOGNESE NELLA PRIMA PARTE DEL XX SECOLO
"Il colono, nel suo contratto col proprietario, doveva sottostare, fino a pochi anni fa, ad alcuni patti, appendizi o obblighi, in confronto del diritto accordategli di allevare polli, qualche maiale, far legna ecc. I patti, per solito, lo impegnavano a portare al padrone, in epoche stabilite, le onoranze, vale a dire frutta, uova, capponi, ed anche un dolce: e lo obbligavano a far bucato, a scavare annualmente un certo numero di metri di fosse per le viti, a fare alcune carreggiate ecc. Ora invece, le onoranze, sono ridotte ai polli ed alle uova, e gli obblighi, assai diminuiti cariano un po' da luogo a luogo" (G. TREBBI - G. UNGARELLI, "Costumanze e tradizioni del popolo bolognese", Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1995 (riproduzione anastatica dell'originale del 1932), pp. 65 - 66)
Circa l'origine del
termine 'angheria' sono due le ipotesi che si confrontano: la 'germanica' e la
'greca'. L'ipotesi 'germanica' fa
discendere il termine angheria da angar (terreno, prato) a sua
volta originato dal tema germanico 'angra' (pastura, terreno a
pascolo, prato, terra non arata per i cavalli e i maiali'. Su questa
base anche il tedesco anger e il norreno angr. (cfr. N. FRANCOVICH
ONESTI, "Vestigia longobarde in Italia", Artemide Edizioni, Roma, 2000,
p. 60) L'ipotesi 'greca' vuole il
termine derivato da un greco 'angareia' a sua volta generato da un
persiano 'angaros' con il significato di messaggero, staffetta del re
di Persia, il quale aveva l'autorità di requisire uomini, animali,
viveri e quant'altro risultasse necessario per la sua missione. Il
termine sarebbe così passato ai Longobardi e alla lingua
italiana col significato di sopruso e vessazione (cfr. N. RAUTY, "Il
Regno longobardo e Pistoia", Società Pistoiese di Storia Patria,
Pistoia, 2005, p. 105). La spiegazione 'greca' è la stessa che ritroviamo in Devoto (Avviamaneto all'etimologica Italiana) in Cortellazzo e Zolli(DELI), in Pianigiani e in numerosi altri autori Da parte nostra sposiamo
totalmente l'ipotesi 'germanica' poiché risulta molto più semplice, molto più logica e storicamente accettabile.
AGRICOLTURA Dell'agricoltura
longobarda sono sopravissuti (almeno fino in epoca recente)
alcuni usi quali: a) la roncatura come ben
esemplificato dallo storico pistoiese Natale Rauty: "Due esempi di
piccole unità poderali nell'alta val d'Ombrone (Pistoia) ancora
interamente circondate da bosco, che in epoche passate erano ricavate
dal disboscamento di aree forestali, secondo l'antico sistema
longobardo" (commento a due foto pubblicate a pagina 110 del libro N.
RAUTY, "il Regno Longobardo e Pistoia", Società Pistoiese di
Storia Patria, Pistoia, 2005); MANOSCRITTI Anche se apparentemente scontato ci pare opportuno
ricordare che tra le
sopravvivenze longobarde e germaniche relative alla nostra area di
interesse ci sono anche i documenti archivistici. La diplomatistica
costituisce peraltro una risorsa fondamentale per comprendere lo
sviluppo sia della lingua italiana in generale che, in particolare, dei
nostri dialetti: "I
materiali longobardi possono dunque recare tracce di fenomeni che
interessano anche la filologia romanza e la storia della lingua
italiana e dei suoi dialetti, proprio perché offrono qualche
visione di
un periodo in cui il latino legale e notarile, benché a tratti
fortemente volgarizzato, ancora tenderebbe a non fare emergere
formazioni troppo volgareggianti, derivazioni, suffissi e tendenze
fonetiche locali, attribuibili al nascente neolatino; queste trovano
invece tramite i nomi propri e le voci germaniche più facile via
d'accesso alla pagina scritta. Inoltre nei termini di origine germanica
si osservano quelle antiche formazioni flessionali deboli in -an che
hanno contagiato o hanno contribuito al tipo morfologico tardo latino
in -a, -anis (cfr. barbane, Fortes, -ene) che è bene inquadrare
e
confrontare con le parallele voci germaniche e longobarde (tipo
aldiane, Audane, Zottani, Zabanis)" (N. FRANCOVICH ONESTI, "Vestigia
longobarde in Italia", Artemide Edizioni, Roma, 2000, p. 49). Per
quanto riguarda la nostra area di interesse i documenti longobardi
confermano la tendenza locale a formare derivati diminutivi col
suffisso di origine anaria - ligure (e poi latina) "-olo" (per l'origine ligure del suffisso cfr.
N. RAUTY, "Storia di
Pistoia", Le Monnier, Firenze, 1988, p. 12 e per la presenza del suffisso nei testi longobardi nord toscani cfr. N. FRANCOVICH ONESTI,
"Vestigia longobarde in Italia", op. cit., p. 49), suffisso che è
giunto
integro fino a noi (per esempio a San Mommè: conigliolo,
formicola,
ragnolo, vispolo etc.). UNITA' DI MISURA Tra le unità di misura ancora ricordate dai pistoiesi
più anziani sopravvive la coltra (corrispondente all'incirca
alla metà di un ettaro). Tale unità di misura risale alla
dominazione longobarda come ci illustra il seguente passo: "Non
è certo in quale misura gli antichi romani abbiano trasformato
il territorio agricolo, ma è invece sicura la permanenza di un'
unità di misura agraria, la coltra ( quadrato con il lato di
circa 71 metri) introdotta dai longobardi" (COMUNE DI PISTOIA, "Piano
Strutturale - Relazione A1", p. 13). Sempre di origine longobarda
è lo stioro (detto anche stiolo per inversione delle liquide l
> r), unità di misura corrispondente a un quarto di coltra. Circa queste due unità di misura scrive lo storico pistoiese
Natale Rauty: "Un altro segno dell'intervento dei Longobardi nell'organizzazione
agricola del territorio pistoiese è fornito dall'adozione di un
nuovo sistema di misure lineari e di superficie che ebbe come base il
piede di Liutprando, documentato a Pistoia fino al XIII secolo ed il
cui ragguaglio è stato determinato in circa 49 centimetri. Il
piede di Liutprando aveva un multiplo, la pertica, pari a dodici piedi;
il quadrato con lato di dodici pertiche corrispondeva a una "coltra",
misura in base alla quale furono suddivisi i campi nei nuovi terreni
messi a coltura... E' possibile ... che il nuovo piede longobardo sia
derivato proprio dalla suddivisione dell'agro pistoiese centuriato (i
cui lati erano di 240 piedi romani) in 144 parti (12 pertiche di 12
piedi), secondo un rapporto strettamente duodecimale" (op. cit., p. 138) E ancora: "La coltra, suddivisa in quattro staiori (o stiori) è una
misura sopravissuta fino ai giorni nostri nella campagna pistoiese,
dove viene ancora usata dai contadini secondo il ragguaglio
approssimativo di mq 5000, cioè mezzo ettaro, contro la misura
esatta di 5064,23 mq" (ibid, p. 138). In alcune aree rurali pistoiesi lo stesso stioro, a sua volta,
è suddiviso secondo un rapporto duodecimale: "12 pugnori
equivalgono a un panoro 12 panori a uno stioro" (P. NESTI, "Villa
c'era", Pro Loco Piteccio, Pistoia, 2004, p. 277). misura medioevale misura moderna coltra = 0,5 ettari coltra = 0,5 ettari stioro = 1/4 di coltra stioro = 1/4 di coltra pertica = 1/12 del lato di
una coltra panoro = 1/12 di stioro piede di liutprando = 1/12 di
pertica pugnoro = 1/12 di panoro Chi
è
avvezzo ai calcoli matematici si sarà accorto che il pugnoro non
è altro che un multiplo del piede di Liutprando. Infatti: 1
coltra = 5064,23 mq - 1 piede di
Liutprando = circa 49 cm Pertanto: 1/4 di
coltra = 1 stioro = 5064,23 / 4
= 1266,06 mq 1/12 di
stioro = 1 panoro = 1266,06 /
12 = 105,50 mq 1/12 di
panoro = 1 pugnoro = 105,50 /
12= 8,79 mq radice
quadra di un pugnoro = SQR
(8,79) = 2,96 m 1/12
della radice quadra di un pugnoro
= 2,96 / 12= 0,247 m = 24,7 cm 1 piede
di Liutprando = 24,7 x 2= 49,4
cm E, al
contrario, possiamo osservare
che dalla coltra possiamo giungere al piede di Liutprando nel modo che
segue: radice
quadra di una coltra = SQR
(5064,23) = 71,163 m (un lato di coltra) 1/12 di
lato della coltra = 71,163 /12
= 5,930 m (una pertica) 1/12 di
pertica = 5,930 / 12 = 0,494 m
= 49,4 cm (un piede di Liutprando) Pertanto
la coltra non è altro
che il piede di Liutprando moltiplicato per 144 ed elevato al quadrato,
mentre lo stioro è la metà del piede di Liutprando
moltiplicato per 144 ed elevato al quadrato. Da un
punto di vista geometrico il
rapporto tra pugnoro e piede di Liutprando è dimostrato dal
rapporto tra stioro e coltra: una coltra è un quadrato la cui
superficie è composta da quattro stiori, ciascuno dei quali
costituito da quattro lati di identica lunghezza e pari ogniuno alla
metà di ciascun lato della coltra. Pertanto i sottomultipli
(lineari e di superficie) di coltra e stioro sono sono tra loro
correlati. Le
informazioni ricavate sulle
unità di misura pistoiesi sembrano altresì confermare
l'ipotesi, già sostenuta da qualcuno, che vuole come base di
parte dell'antica matematica longobarda il sistema duodecimale in luogo
del sistema decimale (cfr. NOTIZIARIO CAO - Club Alpino Operaio di Como
- Anno XXX, n. 2, Aprile 2002, p. 4); è peraltro probabile che il sistema numerico degli antichi germani sia evoluto in talune popolazioni germaniche da una base decimale ad una base duodecimale ("[il]germanico *hudan, che in origine doveva significare 'cento', ha assunto in taluni casi il valore di 120" (A. Scaffadi Abbate, "Introduzione allo studio comparativo delle lingue germaniche antiche", p. 459)). In ogni caso chi scrive è
dell'avviso che il sistema di misurazione terriera di tutti i popoli
germanici fosse basato sul sistema duodecimale, sistema duodecimale che
sopravvive (oltre che nel sistema di misure pistoiesi) ancora nel
sistema anglo - americano: "il mondo anglosassone, che a lungo ha
mantenuto una serie di propri sistemi di misura diversi da quelli di
altre nazioni (tra cui quello duodecimale - divisione in 12, il piede e
il pollice)" (http://www.ilpostalista.it/coordriggi4.htm). E, in
effetti, un sistema duodecimale ha certi vantaggi rispetto a quello
decimale. Mentre dieci può essere diviso esattamente solo per
due e cinque, dodici può essere diviso per due, tre, quattro e
sei. Il sistema duodecimale, per queste sue caratteristiche, era assai
più diffuso in antico di quanto oggi si tenda ad immaginare
(anche se poi, nell'uso comune, sopravvive ancora il termine "dozzina")
e si ritrovava (oltre che nei popoli germanici come abbiamo cercato di
dimostrare) anche tra gli antichi Romani (il loro sistema matematico
era additivo, decimale e quinario per la parte intera, duodecimale per
la parte frazionaria, poiché l'unità semplice, detta
axis, era divisa in dodici once)e, perfino, nel sistema monetario
attico. Tornando in ambito germanico si direbbe che anche il sistema
monetario dei Vandali fosse fondato sulla matematica dodecimale: "I re
Vandali, a partire da Gunthamundo, emettono solo monete d'argento e
bronzo. Le monete d'argento sono di una, mezza e un quarto di siliqua"
(N. FRANCOVICH ONESTI, "I Vandali", Carocci, Roma, 2002, p. 52). I
rapporti di 1/1, 1/2, 1/4 sono basati su equivalenze strettamente
dodecimali (dividendo 12 per 4 si ottiene un numero intero, mentre
dividendo 10 per 4 si ottiene un numero frazionario). Questa
constatazione sembra confermare la nostra asserzione relativa
all'importanza che la matematica duodecimale aveva per i popoli
germanici (longobardi e goti compresi). Sempre
in area pistoiese sopravvive
(vedi Saturnana) un'unità di misura delle uova basata anch'essa
sul sistema dodecimale: la serqua (12 uova). Una filastrocca del luogo
recita: "la mi' padrona era tanto bona la mi dè una serqua
d'ova" (R. NEROZZI, "... tre civette sul comò", Editrice CRT,
Pistoia, 2003, p. 39). Il termine serqua è di origine latina
(lat. siliqua > baccello), ed è derivato da una moneta romana
d'argento di epoca costantiniana (la siliqua appunto) con valore di
1/24 di aureo (solidus), ma è interessante osservare come anche
l'unità di misura monetaria di popoli germanici come i Vandali,
ostrogoti e i Longobardi (APPUNTO) fosse basata proprio su una moneta
d'argento detta siliqua e come il sistema monetario ostrogoto e
longobardo fosse dodecimale. La moneta longobarda più importante
è il Tremisse, ossia terzi del Solido aureo, alla quale i
longobardi accompagnavano una moneta d’argento detta Siliqua. Le carte,
i diplomi e la legislazione di questo popolo, infatti, ci riferiscono
che è stato utilizzato il solido, il tremisse e anche la siliqua
(Nell'Editto di Rotari si legge: "De furtis. Si quis liber homo furtum
fecerit et in ipsum furtum temptus fuerit, id est fegangit: usque ad
decem silequas furtum ipsum sibi nonum reddat, et conponat pro tali
turpe culpa sol. octuginta, aut animae suae incurrat periculum. "). Una
ulteriore traccia di unità
di misura longobarda può essere rintracciata nel vocabolo
pistoiese scafarda (grande quantità, soprattutto di cibo
contenuto in un grosso recipiente). La voce pistoiese discende infatti
dallo "scaffilum", una antica unità di misura terriera usata dai
longobardi e al tempo stesso la misura longobarda di capacità
dei cereali (cfr. N. FRANCOVICH ONESTI, "Vestigia Longobarde in
Italia", Artemide Edizioni, Roma, 2000, p. 115). Ancora gli Statuti
dell'Opera di San Jacopo in Pistoia del 1313 stabilivano che la misura
per la vendita della calcina era lo "scaffiglio": "[A]ncora ordiniamo
ke' fornacciari siano tenuti di fare li mattoni e li teoli a misura
della città di Pistoia, la quale è nella sacristia, e la
misura della calcina debbia essere di mille libre p(er) ciaskeduno
scafiglo" (citato in L. GAI - G. SAVINO, "L'Opera di S. Jacopo in
Pistoia e il suo primo statuto in volgare (1313)", Pacini Editore,
Pisa, 1994, p. 200. cfr. anche Bullettino Storico Pistoiese, Anno CVI -
Terza Serie XXXIX (2004), p. 190). In effetti almeno fino al XVI secolo
sopravvisse a Pistoia un'intero sistema per la misura di
capacità degli aridi di origine longobarda e che il Rauty
riassume così: - Omina (cardine del
sistema) - Quartina (mezza omina) - Scaffiglio (dodici omine) E' ancora il Rauty,
parlando dello Scaffiglio, ad informarci che: "Il lemma ha sicura
origine germanica e si lega quindi, insieme al piede di Liutprando, ad
un sistema metrico che dovrebbe risalire almeno al secolo VIII ed
all'influenza longobarda nell'economia agricola pistoiese" (N. RAUTY,
"Pistoia. Città e territorio nel medioevo", Società
Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003, p. 212) Rimanendo in tema di
unità di misura longobarde non andrà poi dimenticata la
spanna: la spanna (che peraltro sopravvive anche nel toponimo
Spannarecchia) è la misura ottenuta misurando la mano distesa
dalla punta del pollice alla punta del mignolo (per estensione vale
anche come piccola quantità e breve misura). Stando alla lezione
del Gamillscheg anche i toponimi e idrotoponimi Agliana e Agna derivano
da una antica misura germanica (cfr. Alina = misura di un braccio). Tutt'altro che certa,
invece, l'origine longobarda per un'altrà unità di misura
utilizzata a Pistoia almeno fino ai tempi della riforma leopoldina del
1782: "Non si conosce l'origine del
'braccio a panno': il fatto che la sua misura (cm 61,28) sia molto
vicina a quella del 'piede di Liutprando' aumentata di un quarto
(1,25x49,09=61,36) potrebbe essere una semplice coincidenza" (N. RAUTY,
"Pistoia. Città e territorio nel medioevo", Società
Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003, p. 204). IL
MONDO
DELL'ARTE Tralasciando
i pure importanti lasciti
longobardi diretti presenti nel pistoiese (XVII)
possiamo dire che numerose rimangono le
tracce
di una cultura germanica nell'arte locale. I fratelli pistoiesi
Gruamonte
e Deodato hanno perpisquamente connotato la
fisionomia sia scultorea che architettonica della città. Inoltre
molte opere di artisti minori locali (testimoniati ad esempio da certi capitelli con coronamento antropomorfo nella Chiesa di Sant'Andrea
e da
alcuni mostruose protomi ferine nei coronamenti della Chiesa di San
Bartolomeo in Pantano, oppure da quel maestro Enrico che ha istoriato i
capitelli degli stipiti della facciata della Chiesa di Sant'Andrea)
attestano una indiscutibile parentela nordica, non inferiore a quella
di Wiligelmo e dei maestri che scolpirono le statue e i rilievi che
ornano il duomo di Modena. Opere
che meriterebbero un
approfondimento sono anche le numerose colonne custodite all'interno di
chiese e cripte (ad esempio cripta di San Salvatore in Agna, Cripta
Badia di San Baronto) quasi sempre coronate da capitelli con motivi
grossolanamente fitoformi. Se esiste un rapporto tra figura e figurato
(per il concetto siamo costretti a rimandare all'introduzione ad una
edizione della Gerusalemme Liberata pubblicata nel lontano 1665: T.
TASSO, "Il Gioffredo overo Gierusalemme Liberata", Gio Battista
Castori, Venezia, 1665, p. 12) allora le colonne stesse sono l'immagine
'vivente' di quanto è sopravvissuto nell'arte degli antichi
culti arborei germanici (es: il 'sacra arbor" longobardo e il Sassone
Irminsul che sintetizzava l'immagine dell'albero del mondo). Anche la
colonna finemente lavorata con motivi floreali e creature mostruose
della Chiesa di San Pier Maggiore ora nel cortile interno del palazzo
del Municipio, per la ricchezza di motivi floreali, appare quasi una
piccola colonna sacra. Restando
nell'Alto Reno Pistoiese
ricordiamo, invece, la protome a testa di lupo dell'architrave della
Chiesa di Spedaletto da alcuni ritenuta una testa di guerriero: si
tratta ,in effetti, di una interessante curiosità dato che tra i
guerrieri longobardi Paolo Diacono ricorda alcuni "cinocefali". E per
concludere nell'Alto Reno
Bolognese andrà ricordata la lastra del suonatore di corno
provvisto di lancia di epoca romanica, ed opera di un ignoto
scalpellino locale, proveniente dalla Chiesa di Verzuno (fraz.
Camugnano), ma con evidenti elementi barbarici ampiamente
giustificabili in un ambiente ricco di persistenze arcaiche fino
all'età moderna. Paolo Bacchi, in un interessante articolo
pubblicato sul numero 16 della rivista Savena Setta Sambro (n. 16,
1999, pp. 12 ss) vede nella figura del suonatore di corno una
raffigurazione del San Michele / Odino psicopompo (cioè guida
delle anime tra mondo dei vivi e mondo dei morti). Lo stesso Bacchi
ritiene di potere individuare nella lancia la lancia di Odino (detta
Gungnir) e nel corno il corno di Odino (detto Heimdllar). Favorevole
ad attribuire alle
manifestazioni artistiche dell'Alto Appennino Bolognese una
sopravvivenza della cultura germanico - longobarda è anche lo
studioso Carlo degli Esposti (cfr. AA.VV., "Il Mondo di Granaglione",
Tamari Editore, Bologna, 1977, pp. 145 -148). Alla
testimonianza culturale di un
patrimonio germanico e germanizzante nelle opere scultoree ed
architettoniche del territorio pistoiese e del comprensorio alto
appenninico bolognese non sarà, peraltro, estranea la presenza
dei "mastri comacini" [comacini = dalla città di Como ma anche
dal prefisso latino "cum" + germanico "makjon" (muratore)] che, spesso,
non solo lavorarono in questi luoghi, ma finirono per risiedervi. E'
tutt'altro da scartare l'ipotesi che vuole vedere nelle
rappresentazioni celto - germaniche del Sole delle Alpi e della triskel
presenti in Alto Reno e nel pistoiese la sopravvivenza della cultura
dei mastri comacini che operarono in queste zone (andrà comunque
ricordato che gli etruschi già usavano il sole delle alpi, che
la triskel è riportata in monete licie del VI secolo a.C. e che entrambi i simboli sono presenti in manufatti provenienti
dalla città greco - campana di Cuma) Nel
campo della pittura ci limitiamo a
ricordare - oltre all'esistenza una ricca iconografia di Santi cari ai
Longobardi (San Bartolomeo in primo luogo) attestata fino ai giorni
nostri - i resti di un affresco medioevale ancora conservato nella
Chiesa di San Giovanni Fuoricivitas e che rappresenta San Michele
nell'atto di uccidere il drago dell'Apocalisse. Anche questo tema
è chiaramente germanico - longobardo dato che il tema cristiano
dell'arcangelo Michele quale vincitore del drago diabolico (Apocalisse
12, 7 - 9) ripropone il tema dell'eroe germanico uccisore del drago
(vedi Beowulf, Sigurdhr, Sigfrido). E' allora del tutto evidente che i
Longobardi, per influsso della loro tradizione nazionale germanica
dell'eroe vincitore del drago, elessero San Michele Arcangelo come loro
rappresentante anche nella iconografia sacra. E rimanendo in tema di
San Michele Arcangelo non sarà inopportuno menzionare una pagina
tratta dal sito web del Comune di Pistoia: "IL
CULTO PER SAN MICHELE ARCANGELO A
PISTOIA Pistoia di cui è nota l'importanza in età
longobarda occupa un posto di rilievo nel panorama della diffusione del
culto per l'Arcangelo Michele essendo direttamente legata alla
monarchia che aveva assunto l'Arcangelo a suo patrono. San Michele in
Forcole, la cattedrale che tra i Santi del suo lungo titolo annovera
san Michele e S. Michele in Cioncio testimoniano la diffusione in
città del culto per l'Arcangelo. Guido da Como scolpì per
quest'ultima chiesa il san Michele con il Drago. La grande scultura un
tempo sull'architrave del portale raffigura l'Arcangelo con le ali
spiegate, il dragone sotto i piedi e il globo nella mano sinistra. La
mano destra, di cui oggi è privo, teneva la lancia con la quale
sconfisse il drago secondo la più diffusa iconografia."
(http://www.comune.pistoia.it/conoscere/scoperta/scoperta_23.htm) Per
concludere, infine, ricorderemo
due lasciti longobardi la cui diffusione è andata ben oltre la
stessa penisola italiana: le cripte e i campanili. I
campanili, infatti, furono
introdotti nell'architettura occidentale proprio dai Longobardi, come i
(menhir) e gli obelischi, essi rappresentano il tema maschile, la
virilità puntata verso il cielo. Proprio all'epoca longobarda
risale la base del campanile della Cattedrale di Pistoia poi completato
nel XIII secolo da Giovanni Pisano. Nell'architettura religiosa
longobarda è, poi, di grande importanza la creazione della
(cripta), sacello sotterraneo ubicato nella parte più sacra
dell'edificio, che corrisponde all'elemento femminile, come (ventre)
depositario di ogni segreto e di ogni fertilità. CARATTERI
GERMANICI NELLA POPOLAZIONE LOCALE In una
opera fondamentale sulla
montagna bolognese lo storico felsineo Arturo Palmieri scrisse nel
1929: "Questa regione [la montagna] non fu nel Medio Evo una semplice
espressione geografica. Fu qualche cosa di più. La popolazione
in essa compresa ebbe, e mantiene ancora, benché si rendano ogni
giorno più confusi, caratteri etnici, che la separano dalle
circostanti. Ha anzitutto un dialetto proprio. Gli abitanti, eccetto si
intende quelli che occupano gli estremi limiti, parlano uno stesso
vernacolo, il quale si distingue non solo dal romagnolo, dal toscano e
dal modenese, ma da quello stesso parlato a Bologna e nei sobborghi...
I caratteri somatici hanno pur essi alcune particolarità. Il
tipo biondo è proporzionalmente più esteso che nella
città e nel piano" (A. PALMIERI, "La montagna bolognese del
medioevo", Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1981, p. 4). Tale situazione
è registrata anche per il pistoiese a conferma dei rapporti
fortissimi che l'Alto Reno ebbe con la cittadina Toscana: "La
coesistenza di due distinti ceppi etnici nel contado pistoiese era
avvertibile ancora agli inizi di questo secolo [il XX], prima dei
grandi movimenti migratori interni del secondo dopoguerra: in alcune
zone, soprattutto di montagna, prevalgono gli individui con caratteri
mediterranei...; in altre zone, specialmente in pianura erano presenti
caratteri somatici germanici" (N. RAUTY, "Storia di Pistoia", Vol. I,
Le Monnier, Firenze, 1988, p. 137). Ancora oggi è possibile
leggere su Camugnano: "Se si guarda il colore degli occhi e dei capelli
della gente camugnanese si noterà che il tipo biondo è
superiore alla media di tutti gli altri centri della montagna.
Significa che qui i Longobardi hanno avuto insediamenti massicci. Molti
nomi del luogo hanno radici longobarde, come quelli in -ingo, -engo,
-endo e -enda. Per esempio Garisendo viene da 'gair', lancia e da
'sind', viaggio" (F. RAFFAELLI - F. RAFFAELLI, "Passeggiate bolognesi",
Newton & Compton, Roma, 2004, p. 390). Che, in
generale, la Toscana sia una
delle Regioni più "germanizzate" d'Italia è d'altra parte
un fatto noto e per taluni fu proprio la Toscana la terra di elezione
dei Longobardi: "Anche
un autore dell'autorità
di Gioacchino Volpe ammette che la Toscana, per la sua posizione, sia
stata fra le regioni d'Italia quella più fittamente popolata da
Goti, Longobardi e Franchi. In particolare la densità numerica
degli stanziamenti arimannici autorizza molti storici a parlare di
«Tuscia Longobarda», mentre noi provocatoriamente ci
domandiamo nel titolo, visto che anche l'egemonia politica si trovava
nelle mani dei conquistatori, se la denominazione di "Lambardia" non
sarebbe più appropriata per la Toscana che per la regione
lombarda" (Gualtiero Ciola).
Andrà
ancora osservato che i
Toscani, assieme ai Veneti ed ai Friulani, detengono il primato
dell’altezza corporea fra gli abitatori di tutta la penisola italiana. A
conferma dell'importanza e della
persistenza di una identità; germanico - longobarda nei territori
di nostro interesse basterà ricordare che ancora nel XII secolo
a Pistoia era frequente l'applicazione delle norme giuridiche dettate
dal Re longobardo Rotari quali il launechild, il mundium e il morgengab
(N.RAUTY, "Storia di Pistoia", Vol. 1, cit., p. 140). Il guidrigild
peraltro risulta godere di ottima salute ancora alla fine del XIII
secolo (N. RAUTY, Op.Cit., p. 145) e anche il mundualdo è
ampiamente attestato nel XIII secolo in Alto Reno (Savena Setta Sambro,
n. 25 (2003), pp. 3-9). Anche successivamente sono innumerevoli i
documenti che attestano la professione di legge longobarda. La
sopravvivenza di queste tradizioni, così contrarie alla
tradizione giuridica - romana, ben oltre la fine del regno longobardo
la dice tutta sulla volontà dei "germanici" che hanno
abitato queste terre di preservare la propria identità.
Tuttavia, nel corso dei secoli, si arrivò pian piano ad una
assimilazione tra Longobardi e "Romani" (XVIII): è proprio il già citato
Gioacchino Volpe a
sostenere che in Toscana si verificò, attorno al X secolo, una
vera e propria fusione tra italici e stranieri (cfr. M. ZUCCHELLI, "Lo
statuto di Montieri del 1500", Tesi di Laurea in Giurisprudenza, Anno
Accademico 1997/98, Università di Pisa, cap. I) (XIX) . E questo
atteggiamento di consapevole identità senza separazioni è
gravido di eventi positivi: "La
Toscana fu il paese d'Italia che
più compiutamente d'ogni altro eliminò il feudalesimo ed
ebbe i più evoluti Comuni di contado; e prima mise al sole i
frutti della lunga elaborazione interiore, le forme
dell'italianità nell'arte e nella lingua" (G. VOLPE, citazione
riportata in M. ZUCCHELLI, op. cit.) IL
SUPERSTRATO
GERMANICO NEI TOSCANISMI PRESENTI IN ALTO RENO Il
contributo più originale
alla cultura dei Comuni Altorenani causato dalla presenza dei popoli
germani (e in particolare dei longobardi) è costituito tuttavia,
a nostro modesto avviso, dai particolari dialetti toscaneggianti (noi
li definiamo "gallo toscani") parlati tutt'oggi dalle persone
più anziane (clicca qui per saperne di
più). UN
PATRIMONIO IN
PERICOLO Quello
che abbiamo registrato in
queste pagine è una testimonianza di quanto oggi (anno 2004)
sopravvive nel pistoiese e nell'Alto Reno del lascito germanico e
longobardo. Il futuro è però nero dato che la stragrande
maggioranza delle testimonianze lessicali, dialettali, e culturali in
genere, è affidata alla memoria delle persone più
anziane. Andando
avanti di questo passo
riteniamo che, entro i prossimi dieci (o al massimo venti) anni, il
lascito longobardo - germanico sarà definitivamente compromesso.
"tondo" di Poggiolforato (Alto Reno) ________________________________________________________________________________________ (I) l'elenco
dei termini di origine longobarda o germanica presente in italiano e nelle parlate
dell'Alto Reno e del pistoiese è in realtà assai lungo, e
solo a titolo di mero esempio ricorderemo anche: hanka (=anca) con esito
"anca"/ rauffen (=arruffarsi)
con esito "arruffare" / bald (=ardito) con esito "baldo"/ bara
(=lettiga) con esito bara/ birhoffian (= schiamazzare) con esito
baruffa / ber+lokke (=richiamo di caccia) con esito berlicche (=
diavolo)/ blank (= bianco lucente) con esito bianco/ fazzjo (=straccio)
con esito fazzoletto/ bukon (=lavare con la liscivia) con esito bucato/ gram (=misero) con esito gramo/ kripja (=
mangiatoia) con esito greppia/ grimmitha (= che fa paura) con esito
grinta/ waidanjan (= pascolare) con esito guadagnare/ wankja (=
guancia) con esito guancia/ bastan (= cucire, dare punti) con esito
imbastire/ mundwald (= canaglia ma anche tutore poiché collegato al tema mund
> protezione) con esito manigoldo/ mëlma (= melma) con esito
"melma"/ milzi (= milza) con esito milza/ rìhhi (= ricco) con
esito ricco/ rann (= gocciolatura) con esito ranno/rukka (= rocca per
filatura a mano) con esito rocca/ wahtari (= guardiano) con esito
sguattero /spahhan (= fendere) con esito spaccare/ raubòn (=
bottino) con esito rubare/ hrùzzan (= russare) con esito
russare/ skaf (= armadio senza sportelli) con esito scaffale/ snell (=veloce) con esito snello/ sterz (=
manico dell'aratro) con esito sterzo/ skinka (=femore) con esito
stinco/ tappa (= tappo) con esito tappo/ tauffjan (= tuffare) con esito
tuffare/ bàra+onda (= baraonda) con esito baraonda/ supfa (=
polenta tenera) con esito zuppa e altri termini ancora che non andremo
a riportare, frisk (fresco) con esito fresco. Talvolta il vocabolo nel
dialetto locale assume un significato leggermente discordante
dall'italiano: il treppiese e sammomeano guercio (dal longobardo dwerk)
non indica lo strabico, ma il cieco. Resti di parole germaniche possono essere individuate anche in espressioni d'uso quotidiano, un esempio tipico è rappresentato dalla locuzione "a ufo" (senza pagare) forse collegata al germanico ufjô col significato di abbondanza.Per quanto riguarda il raro
vocabolo ranno ci permettiamo una lunga citazione da una e - mail
ricevuta da Laura Battistini di Lentula (abitato del Comune di Sambuca
Pistoiese) e relativo a un altro vocabolo di uso locale:
"céneròne: pezzo di tela grezza dove veniva messa della
cenere del camino e veniva poi collocato in una conca di terracotta
(nella zona vi erano diverse fornaci), a mo' di "infuso", insieme a
tanta acqua bollente (= il RANNO). L'acqua veniva cambiata diverse
volte, tramite un foro in fondo, di lato alla conca. La conca veniva
coperta con una grossa lastra di pietra, Nella conca venivano immerse
le robuste lenzuola di canapa (nostrana) coltivata e tessuta nella
zona." In alcuni casi una parola germanica viene reintrodotta solo di recente nel parlare quotidiano, ma appare ai parlanti come d'uso locale ininterrotto: è il caso di spalto (parola sopravissuta solo nei registri alti fino a tempi recenti) ed oggi d'uso comune grazie ai giornalisti sportivi. In altri casi, al contrario, la parola germanica reintrodotta nel parlare quotidiano di recente è avvertita
come non locale: E' il caso di faida (longobardo faihida) sentita come
voce del Sud Italia, ma introdotta nel parlare quotidiano da una lirica
di Carducci ("Faida di Comune"). Altre, ancora, pervengono direttamente
da altri dialetti della penisola italiana e sono di più o meno
recente introduzione (è il caso della "pizza napoletana" la cui
etimologia è stata nel 1979 ricondotta alla stessa radice
germanica del tedesco "bissen") oppure provengono da altre lingue
romanze e, in particolare, dal francese (è il caso, ad esempio,
di "giardino" derivato dal francese "jardin" a sua volta prestito dal
franco gart (tedesco garten)). Altre, infine, sembrano destinate a rimanere nel vocabolario come termini storici: aldio e aldione (semilibero), arimanno (exercitalis), gasindio (consigliere e coadiutore del re), 'guidrigildo' (prezzo di composizione per le offese private), 'mundio' (tutela), sculdascio ('funzionario preposto a una circoscrizione territoriale') (II) Al
fine
di comprendere appieno l'importanza e la quantità dei germanismi
e longobardismi testimoniati tutt'oggi nell'Alto Reno e nel pistoiese
basterà ricordare che: 1) della presenza di colonie valdesi
nell'area calabrese che fa capo a Mormanno, Laino, Morano e paesi
circonvicini sono sopravissuti al 1930 non più di 20 vocaboli;
2) della presenza slava nel Gargano non rimangono altro che 19
vocaboli; 3) che non un solo vocabolo è rimasto a testimoniare
nella parlata locale le colonie slave che portarono alla fondazione di
San Vito degli Schiavoni (oggi San Vito dei Normanni) in provincia di
Brindisi. Per saperne di più si consiglia di leggere G. ROHLFS,
"Studi e ricerche su lingua e dialetti d'Italia", Sansoni, Firenze,
1997, pp. 220 - 224, 349 - 356).Relativamente a quella parte del
patrimonio lessicale longobardo e germanico che i dialetti altorenani
hanno in comune col bolognese ma non con il pistoiese si evidenzia,
invece, quanto segue: 1) effettivamente una qualche presenza longobarda
è attestabile anche per il bolognese a seguito della conquista
di Bologna nel 727; 2) diversi termini del lessico bolognese, tuttavia,
si ritiene possano essere considerati dei prestiti dai dialetti vicini.
A quest'ultima categoria dovrebbe essere ascritto il termine bolognese
"sprucajen" (bella ragazza) dato che nei dialetti altorenani troviamo
uno "sprucaglino" (bambino) che ci pare assai più consono
all'originale sproh (rametto / germoglio). (III) Personalmente
registriamo con perplessità (sia pure non escludendola in via
definitiva) l'ipotesi avanzata da Paolo Bacchi su possibile origine
longobarda per il vocabolo altorenano e altopistoiese "stropello" (=
vetrice). Non è chiaro, infatti, come a partire da una radice
del tipo "stupalaz" (= confine) si possa arrivare ad indicare una
pianta. Circa l'ipotesi di Paolo Bacchi si rimanda alla pagina 19 della
rivista bolognese "Savena Setta Sambro" (n. 24, 2003, p. 19). Tuttavia
l'ipotesi potrebbe apparire assai più probabile se
anziché da una voce stupalaz non si ricerchi l'origine del
termine in stapulaz (palo piantato) (IV)
Sergio
Rovagnati scrive nella sua monografia sui Longobardi addirittura: "Per quanto riguarda la
lingua non sappiamo molto,
perché i nostri non misero mai nulla per iscritto nel loro
idioma (a differenza di quanto fecero i Goti con la Bibbia di Wulfila)
e nelle poche tracce rimaste nella loro lingua spesso è
difficile distinguere gli elementi realmente longobardi da quelli
acquisiti da altre popolazioni, in particolare dai goti" (S. ROVAGNATI,
"I Longobardi", Xenia, Milano, 2003, p. 95). E ancora: "Ancora oggi, in molti
casi, si ha difficoltà
a distinguere, nella toponomastica (specialmente nel settentrione) e
nella lingua italiane, gli apporti gotici da quelli longobardi" (Ibid.,
p. 98). Mente in un'altra opera dedicata ai Goti asserisce che: "Si deve tener presente che, dopo la sconfitta in Italia gli Ostrogoti superstiti probabilmente non hanno di nuovo varcato le Alpi per disperdersi o fondersi con altre popolazioni germaniche (nonostante quello che racconta la tradizione). E' più probabile che la maggior parte di essi si sia unita ai Longobardi, portando un bagaglio culturale e linguistico e facendo sentire la propria influenza. Quindi oggi sarebbe difficile distinguere alcuni dei vocaboli da loro usati" (S. ROVAGNATI, "I Goti", Xenia, Milano, 2002, pp. 72 - 73). A conferma di quanto
scrive il Rovagnati non solo
ricordiamo il già citato passo del prof. Tagliavini, ma anche la
banale constatazione che non sempre l'assenza della seconda
Lautverschiebung testimonia la non longobardicità di una parola.
La seconda Lautverschiebung, infatti, non ha raggiunto il longobardo
immediatamente e completamente e la presenza di doppi come balla /
palla, panca / banca lo dimostra ampiamente (cfr. N. FRANCOVICH ONESTI,
"Filologia germanica", Carocci, Roma, 2002, p. 150). Per chiarire in cosa
consiste la cosiddetta seconda
Lautverschiebung riportiamo un passo di un famoso manuale sulla lingua
tedesca: "Il termine 'tedesco
antico' non designa una lingua
unitaria, ma piuttosto un insieme di dialetti riconducibili a due
grandi raggruppamenti: i dialetti alto - tedeschi, centro -
meridionali, e quelli basso - tedeschi, settentrionali. La distinzione
poggia soprattutto (ma non esclusivamente) su cospicue differenze di
consonatismo. Infatti, mentre i dialetti basso - tedeschi conservano il
consonatismo di una fase precedente detta 'germanica' (e per certi
versi simili a quello dell'inglese e delle lingue nordiche), i dialetti
alto - tedeschi partecipano, sia pure in misura diversa, a una grande
innovazione, detta 'seconda mutazione consonantica' (zweite
Lautverschiebung) o 'seconda legge di Grimm' che modifica notevolmente
la loro fisionomia: antico inglese: deop /
antico sassone: diop /
francone orientale: tiop / tedesco superiore: tiuf (profondo) antico inglese: beorg /
antico sassone: berg /
francone orientale: berg / tedesco superiore: perg (monte) antico inglese: pund/
antico sassone: pund/ francone
orientale: pfunt/ tedesco superiore: pfunt (peso) antico inglese:
drincan/ antico sassone: drinkan/
francone orientale: trinkan/ tedesco superiore: trinchan (bere)" (F.
ALBANO LEONI - E. MORLICCHIO, "Introduzione allo studio della lingua
tedesca", Il Mulino, Bologna, 1988, p. 259).
Per quanto attiene la
fusione dei Goti con il popolo
romano e col popolo longobardo ci è stato obbiettato che dopo la
guerra gotica non rimase più alcun goto in Italia. Questa
affermazione, francamente, ci pare inaccettabile in quanto: 1) Procopio
di Cesarea, in conclusione alla sua "Guerra gotica" (IV, 35), ci dice
che solamente i Goti che decisero di non sottomettersi all'Imperatore
lasciarono l'Italia; 2) nella seconda metà
dell'VIII secolo sono ancora presenti in Italia "civis" che vivono
secondo la 'lex Gothorum' (P. GRIBAUDI, "Sull'influenza germanica nella
toponomastica italiana", Società Geografica Italiana, Roma,
1902, p. 18); 3) gli studiosi sono concordi nel ritenere che la
maggior parte dei Goti decise di rimanere in Italia assoggettandosi
all'imperatore di Bisanzio (cfr. H. Wolfram, "I germani", Il Mulino, Bologna, 2005, p. 100). In relazione al punto 3 ci pare opportuno
ricordare che già Pasquale Villari nel 1905 scriveva:
"Così molti di
loro [i goti dopo la sconfitta definitiva subita contro l'esercito
Bizantino del 553] passarono le Alpi, andando a confondersi con altre
genti; non pochi si sparsero per le terre d'Italia con la speranza di
farsi dimenticare" (P. VILLARI, "Le invasioni barbariche in Italia",
Hoepli, Milano, 1905, p. 243). (V)
Oltre al
toponimo San Mommè nell'Alta Valle dell'Ombrone Pistoiese
ritroviamo alcune forme Mummè nell'Alto Appennino Pistoiese
(cfr. A. FANOI ANDREOTTI, "Acqua corrente", Armonia - Pro Loco
Piteglio, Pistoia, 2004, p. 53). (VI) La
presenza delle missioni in terra longobarda è così
motivata da Natale Rauty: "La lunga guerra gotica
e la successiva conquista
longobarda avevano sconvolto l'assetto della penisola italiana,
interrompendo anche l'azione di evangelizzazione delle campagne, ancora
in buona parte pagane. Per di più i nuovi popoli invasori,
convertiti al Cristianesimo, avevano aderito all'eresia ariana,
affermata in buona parte dell'Europa centro orientale. Con l'ascesa al
soglio pontificio di Gregorio Magno (590 - 604) ebbe inizio
un'attività missionaria che, oltre a terre lontane come
l'Anglia, interessò anche vaste regioni italiane e raggiunse
già nella prima metà del secolo VII un notevole sviluppo.
Favorirono quest'opera missionaria due circostanze particolari: da una
parte l'attenuata ostilità dei re longobardi verso la Chiesa
Romana, dall'altra le straordinarie vicende che avevano insanguinato il
Medio Oriente. A partire dal 611
l'invasione persiana aveva
interessato gran parte delle regioni del Mediterraneo orientale, fin a
quando l'Impertatore d'Oriente Eraclio, aveva sconfitto il re Conroe II
nel 627. Pochi anni dopo le stesse terre furono occupate dagli Arabi,
infiammati dalla predicazioni di Maometto: già nel 634 era stata
occupata Gaza e, negli anni successivi, la Palestina e l'Egitto. I
sacerdoti ed i monaci, fuggiti dalle zone occupate e riparati a Roma,
furono inviati dai pontefici come missionari nelle regioni centro -
settentrionali della penisola, soprattutto nelle zone di confine, dove
erano accantonate truppe di origine gota o longobarda, di religione
ariana" (AA.VV., "Torri: Storia, Tradizioni, Cultura", Società
Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2003, p. 52). La Chiesa di Sant'Atanasio ad Orsigna rappresenta, in questo senso, una delle dedicazioni santoriali più significative: "Sant'Atanasio (295 - 373) è il celebre Patriarca di Alessandria, l'invitto campione dell'ortodossia cattolica contro l'arianesimo" (nota a p. 345 del vol. 4 di "La Somma Teologica" di San Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio DOmenicano, Bologna, 1994). (XII) Per
Guccini "aschero" può derivare sia dal greco "eschairon", col
significato di bracere / piaga purulenta che dal longobardo "eiskon"
col significato di domanda. Nella nostra ricerca, alla luce dei tanti
longobardismi e germanismi riscontrati nel territorio, abbiamo
preferito adottare l'eiskon longobardo al greco eschairon. Tuttavia gli
assai complessi attributi semantici della parola "aschero", e la sua
presenza nel pistoiese e nell'Alto Reno, possono anche ricondursi ad un
uso religioso della parola greca "eschairon" (ad indicare realtà
come il bruciore per l'inferno o il bruciante desiderio del paradiso)
riconducibile, in tal modo, non ad una effimera dominazione bizantina,
ma alla presenza di missionari orientali in terra longobarda. (XIII) La
forma
petrolinga (con variante peterlinga) è diffusa in alcune parti
dell'Alto Appennino Pistoiese. (XIV)
La
tradizione risultava presente ancora a Lucciano e a Piteccio. In queste
località si accompagnava anche la benedizione del "pane delle
galline". Pur non dimenticando che tali tradizioni possono spiegarsi
anche senza dovere ricorrere necessariamente a miti nordici (per
Piteccio la tradizione viene giustificata localmente con l'importanza
che questi animali hanno nella vita contadina (ad esempio "il gatto
aveva il suo compito ben preciso: difendere il cibo dai topi" (P.
NESTI, "...Villa c'era", Pro Loco Piteccio, Pistoia, 2004, p. 123)),
vale comunque la pena segnalare che anche il gallo riveste una
importanza decisiva nella mitologia germanica: Il Crepuscolo degli dei
(Ragnarök) verrà annunciato dal canto di un gallo rosso, di
un gallo d'oro e di un gallo ruggine. Va altresì segnalato come
tra i Longobardi fosse diffuso l'uso di porre sulle tombe degli inumati
le spoglie di un gallo o di una gallina, tradizione che sopravvive
tutt'oggi nella nostra area di interesse a livello di fiaba (vedi il
sambucano racconto della Regina Selvaggia sepolta con una chioccia e
dei pulcini d'oro). In merito ad altre superstizioni legate al gallo e
alla gallina cfr. M. CECCHELLI, "Una gallina sotto il guanciale", Gente
di Gaggio, 2001, pp. 178 ss. (XV)
Una
variante di questa tradizione di possibile origine germanica (tuttavia
più legata ai culti arborei) si può rintracciare in
Umbria: "In rapporto alla farsesca rappresentazione della Mascherata di
San Leo Bastìa è da collegarsi un rituale tra i
più antichi e diffusi nell'ambito rurale regionale. Si tratta
della festa di "Sega la Vecchia", collocata a metà Quaresima e
consistente nella rappresentazione drammatica e grottesca
dell'uccisione di una vecchia che allo stesso tempo è anche una
quercia: gruppi di giovani contadini, tutti di sesso maschile, si
preparano e si mascherano, e nelle notti di Mezza Quaresima vanno per
la campagna fermandosi di casolare in casolare a eseguire la
rappresentazione finita la quale ricevono uova e vino. A seconda delle
località si riscontrano leggere variazioni nella struttura del
canovaccio e nelle esecuzioni, ma la trama è identica: due
segantini (taglialegna) contrattano con il padrone del bosco il prezzo
della vecchia - quercia e, accordatisi, l'abbattono e cominciano a
sfrondarla; sopraggiunge il marito della vecchia che riconosce
nell'albero abbattuto la propria moglie e quindi si susseguono
interventi burleschi del medico, del maresciallo dei carabinieri, del
prete, eccetera. Alla fine la vecchia, data oramai per morta da tutti,
si rialza e inizia a ballare freneticamente con il marito al suono di
una fisarmonica. Questa festa, in declino, sopravvive nelle campagne di
Paciano e di Umbertide" (AA.VV. "Umbria", Touring Club Italiano -
Repubblica, Milano - Roma, 2004 p. 82). Sicuramente più
complicata da ricostruire è l'origine di certe superstizioni che
possono essere attribuite in egual misura al mondo greco - latino
oppure al mondo germanico - nordico. E' il caso, ad esempio, della
"magia del filo": "La vigiglia di
Natale uno innocente filare a
digiuno e con quel filo legare i frutti danno più frutto che non
farebbero" (testimonianza di Aurelia Riccioni pubblicata in M.
CECCHELLI, "Una castagna sotto il guanciale", Gente di Gaggio, Gaggio
Montano, 2001, p. 36). In questo caso la
simbologia dove può essere
ricercata? Nel mito mediterraneo delle tre Parche che filano il filo
della vita o nel mito nordico delle tre Norne che filano il destino di
ciascun essere umano? E il germanico "rok" (destino / fato) è in
qualche modo legato al termine "rocchetto" (= piccolo sostegno di forma
cilindrica su cui si avvolge il filo)? (XVI) La
figura del nano risulta ben distinta da quella del folletto.
Quest'ultima, infatti, è di chiara derivazione latina e discende
direttamente dagli "incubones" romani, sorta di spiritelli dotati di
cappuccio. Anche nella nostra area di interesse sono presenti i
folletti come dimostrano certe credenze altorenane (ricordiamo la
"stanza del folletto" in un 'dittaggio' lizzanese) e le fiabe pistoiesi
"Mille chicchi di panico" e "la trave dell'impiccato". Quest'ultima
interessante favola pistoiese, che sembra in qualche modo legare questa
figura mitologica latina al "grillo parlante" di Pinocchio (C. LAPUCCI,
"Il libro delle veglie", Vallardi, Milano, 1988, p. 283), presenta
peraltro una singolare commistione tra l'incubones stesso, i "penati"
romani (spiriti tutelari delle case spesso confusi con i "lari
domestici") e i "gutviarghini" della favolistica germanica (vedi la
classica fiaba dei "Folletti e il calzolaio" dei fratelli Grimm). Per
quanto attiene il termine "gnomo", che nella fiaba lizzanese citata
è usato come sinonimo di nano, sarà bene ricordare come
lo
stesso abbia un padre rinascimentale: il medico ed alchimista Paracelso
che, nel XVI secolo, inventò la parola "gnomus" partendo da un
greco "γνωμων". Per quanto
riguarda Pinocchio, già citato in
precedenza in questo lavoro, sarà bene ricordare che la sua
attribuzione all'area pistoiese è tutt'altro che fuori luogo
considerando che il paese di nascita della madre di Carlo Lorenzini è Collodi
(da cui il soprannome dell'autore), in provincia di Pistoia. (XVII) All'epoca
longobarda risalgono, ad esempio, i pregevoli capitelli custoditi nella
cripta della Cattedrale decorati con simboli cristiani (Per uno di
questi abbiamo predisposto un approfondimento, per sapere di più
clicca
qui), alcuni resti di pluteo, vari frammenti lapidei anch'essi
provenienti dagli scavi nella cripta della Cattedrale. E nientemento
che al Re Agilulfo pare appartenesse la lamina a sbalzo dorata
ritrovata in Valdinievole attorno al 1890 con imitazione di un rilievo
celebrativo classico e la scritta "VICTURIA DOMNO AGILULF REGI"
(attualmente al Museo del Bargello di Firenze). L'arte dei secoli
successivi manterrà in area pistoiese un forte carattere
barbarico, dimostrabile anche in piccoli artifici scultorei come il piccolo leoncino
in pietra serena proveniente dalla Chiesa di Santa
Maria Forisportam ed ora nella parete esterna che si affaccia su Via
del Vento della Basilica della Madonna dell'Umiltà. (XVIII) Fu
necessario
infatti superare una reciproca diffidenza ben
testimoniate da questi reciproci sprezzanti giudizi: "Per noi altri
Longobardi, Sassoni, Franchi, Lotaringi, Baioari, Svevi, Burgondioni,
il nome stesso di Romano è un’ingiuria" (Re Liutprando); "La
perfida e puzzolentissima nazione de’ Longobardi, che non si conta
neppure tra le nazioni, e dalla quale è certo essere venuta la
razza de’ lebbrosi" (Papa Stefano III) Per Papa Stefano III il re
longobardo Astolfo era: "malignus, iniquus, pestiferus, nequissimus,
nefandus, atrocissimus, nefandissimus, tyrannus". E tuttavia questi pur
sprezzanti
giudizi non devono far dimenticare che i Longobardi assunsero il titolo
romano di "Flavi", che diversi "Romani" scelsero di essere seppelliti
alla maniera longobarda, che lo stesso papa Gregorio Magno (in una lettera del 598 rivolta a Teodolinda) ricorderà il Re Agilulfo come 'excellentissimum', etc. E, in precedenza, anche tra i Goti l'ammirazione per la cultura romana era profondissima: "I Goti... tenevano più loro alla 'romanità' e alla tradizione latina che i Romani stessi" (S: ROVAGNATI, "I Goti", Xenia, Milano, 2002, p. 1) Per fronteggiare
questa linea fortificata, i
Longobardi fecero avanzare i loro gruppi armati di exercitales (o
arimanni) in una fascia di territorio montano che sul versante
tirrenico interessava l'alta valle del Bisenzio e sul versante
adriatico le tre vallate della Limentra. Si costituì così
una linea avanzata longobarda, alla distanza di una ventina di
chilometri dai castelli del limes bizantino. La base logistica di
questo schieramento longobardo era la città di Pistoia, nella
quale era installato un gastaldo, così che anche i territori
poste oltre il crinale furono compresi di fatto nella iudicaria
pistoiese, sebbene mai, in precedenza, fossero stati soggetti a
Pistoia... I gruppi
arimannici stanziati nelle valli
della
Limentra svolsero il ruolo di scolte armate per oltre un secolo, fino a
quando, sotto il regno di Liutprando, il fronte bizantino fu travolto
ed attorno al 727 fu conquistata Bologna. Nell'alto Appennino i
Bizantini dovettero allora abbandonare i castelli del limes per
ripiegare su una linea più arretrata, mentre i Longobardi
poternono avanzare ulteriormente, occupando quella sorta di terra di
nessuno che per oltre un secolo aveva diviso i due schieramenti
contrapposti. Anche in questi nuovi territori, compresi grosso modo fra
il Sambro e la Limentra, furono stanziati nuovi gruppi arimannici,
mentre la iudicaria pistoiese si estese di fatto all'intera zona
compresa tra questi due corsi d'acqua. ... In
particolare, l'espansione in queste
zone
transappenniniche del territorio soggetto al gastaldo di Pistoia
è confermata da numerosi documenti notarili dei secoli XI e XII,
nei quali molte località tra il Sambro e la Limentra sono
definite ancora "in iudicaria Pistoriensi"., o più precisamente
"in territorio Bononiense, iudicaria Pistoriensi". La punta più
avanzata verso nord - est arriva addirittura al villaggio di Brigola,
oggi in prossimità del casello autostradale di Rioveggio" (N.
RAUTY, "Sambuca dalle origini all'età comunale", Società
Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 1990, pp. 4 - 6). E ancora: "Elemento di
grande importanza per la storia
del
territorio fu, fra il VI ed il VII secolo, l'invasione dei Longobardi
provenienti, per la montagna bolognese, probabilmente da sud dalle
città di Lucca, Pistoia e Fiesole che furono da essi occupate
già alla fine del VI secolo. La presenza di questo popolo di
origine germanica modificò profondamente l'assetto territoriale,
perché le alte valli bolognesi divennero zona di frontiera fra
la Longobardia pistoiese e la Romania bolognese - ravennate, arretrata
più a nord della linea Castelnuovo - Montovolo - Castel
dell'Alpi... L'influenza pistoiese e la dominazione dei signori di
Stagno nella cosiddetta terra Stagnese continuò fino all'inizio
del duecento quando il Comune di Bologna condusse a termine il progetto
di nuova occupazione delle alti valli, al fine di corrispondere il
proprio distretto al territorio soggetto al vescovo cittadino" (R.
Zagnoni, "note storiche sul comune di Granaglione" in AA.VV.
"Dizionario Toponomastico del Comune di Granaglione", Gruppo Studi Alta
Val del Reno, Porretta Terme, 2001, pp. 24 - 25).
Ancora più
risoluto il giudizio di
Paolo Bacchi: "Verso la fine
del VI secolo gli invasori
[Longobardi] raggiunsero il crinale, percorrendo le vie più
accessibili per quel tempo: gli odierni valichi della Collina e di
Montepiano [la Collina è in provincia di Pistoia mentre
Montepiano è in provincia di Prato ma dipese ecclesiasticamente
da Pistoia fino al 1975]... E' presumibile... che all'inizio del VII
secolo il cuneo longobardo si insinuasse stabilmente ben oltre i
capisaldi individuati da Rauty, arrivando a toccare il corso medio del
Setta e della Valle del Sambro. Il toponimo Fara di Setta, situato a
valle di Creda (Castiglion dei Pepoli) e riportato ancora nel 1408
potrebbe essere un indizio fondamentale per individuare i limiti
cronologici e spaziali dell'avanzata dei Longobardi verso Bologna... Il
toponimo è verosimilmente la spia di un nucleo arcaico di
occupazione del territorio, legato alla prima fase dello stanziamento
longobardo in Italia" (Savena Setta Sambro, n. 19 (anno 2000), p. 16) Ovviamente
quanto parliamo di 'identità
germanica' che resiste nell'Alta Valle del Reno attraverso il toscano
non sosteniamo che il toscano sia una lingua germanica, ma ci riferiamo
alla volontà della popolazione longobarda (germanica) di
accogliere la romanità toscana in contrapposizione a quella
gallica; in proposito basterà ricordare, a titolo di esempio,
che: 1) il primo podestà di Pistoia fu il longobardo Gerardo di
Stagno; 2) Ciottolo di Bargi, Ghislmerio di Casio e tutta la progenie
stagnese furono fedelissimi vassalli della causa pistoiese avverso
Bologna tanto che, nel 1205, gli uomini di Stagno giurarono di
difendere Pistoia 'in tota sua fortia et districtu'. Al giuramento del
1205 gli Stagnesi rimasero, peraltro, fieramente fedeli come dimostra
anche il brano seguente: "Qui vorremmo solo fare rilevare come Ugolino
di Stagno all'inizio del Duecento, pur nelle traversie di un momento
difficile, parteggiò sempre per la Città di Pistoia;
anche nelle vicende dell'inzio del Trecento gli Stagnesi ribadirono
sempre la loro fede ghibellina e la loro avversione, condivisa con i
Panico, al dominio del Comune di Bologna. In questa irrevocabile scelta
essi ribadirono quei principi e quella mentalità che stavano
alla base della loro origine e della storia della famiglia, che
dalla dominazione longobarda pistoiese deriva le proprie tradizioni
guerresche ed il proprio dominio sulle montagne fra Bologna e Pistoia"
(Nueter, XXIII, 1997, p. 192). Mentre per i
territori di Castel di Casio,
Camugnano,
Porretta Terme, Granaglione la situazione appare lampante un poco
più complessa è la ricostruzione delle vicende storiche
di Lizzano in Belvedere e Gaggio Montano. Secondo alcuni autorevoli
storici locali (ad esempio il Zagnoni) Lizzano in Belvedere e Gaggio
Montano furono occupate dai longobardi modenesi e non dai longobardi
toscani (cfr. R. ZAGNONI, "Il medioevo nella montagna tosco -
bolognese", Nueter, Porretta Terme, 2004, pp. 237 - 238). Queste
dichiarazioni paiono tutte ricondursi a un celebre passo della Historia
Longobardorum di Paolo Diacono: "Il Re Rotari ... mosse guerra ai
Romani di Ravenna [i bizantini], presso il fiume dell'Emilia detto
Scultenna" (IV,45). Tuttavia all'epoca di Paolo Diacono il termine
Scultenna si riferiva all'intero corso del Panaro. A nostro avviso la
presenza di dialetti toscaneggianti a Lizzano in Belvedere rappresenta
la prova più evidente che Lizzano e Gaggio Montano (che pure
mantiene qualche modesta traccia toscaneggiante nel parlare) fu
conquistata dai Longobardi di Toscana. A supporto della nostra
interpretazione, peraltro, possiamo menzionare:1) [accettando l'interpretazione dello storico Rauty e di altri storici Zagnoni compreso] la presenza del
toponimo Scaffaiolo nell'area del Corno alle Scale che può
essere spiegato esclusivamente ricorrendo ai Longobardi di Toscana dato l'uso del suffisso -olo
(cfr. la notazione redatta per "Scaffilum" da Nicoletta Francovich
Onesti a pagina 49 del libro "Vestigia longobarde in Italia" (Artemide
Edizione, Roma, 2000)); 2) la presenza di un'altra importante
località del crinale appenninico nel quale si parla un dialetto
toscaneggiante e che appartenne ai territori del Marchesato di Toscana
fino all'XI secolo Fiumalbo. Del tutto destituita di fondamento
è poi la tradizione storica riportata in più occasioni
nella rivista lizzanese "La Musola" secondo la quale Lizzano rimase in
mano ai bizantini fino al 749 - 751 d.C. dato che le vicine Pistoia e
Modena erano longobarde fin dalla fine del VI secolo, mentre Bologna fu
conquistata dai Longobardi nel 727 d.C. (cfr. G. RAVEGNANI, "I
Bizantini in Italia", il Mulino, Bologna, 2004, p. 128). Anche Amedeo
Benati (Il Carrobbio, anno II, n. 2, 1976, pp. 48-49) è del
parere che Gaggio Montano e Lizzano in Belvedere appartennero ai
Longobardi di Toscana (poche pagine prima il Benati scrive: "fra la
Tuscia longobarda, e in particolare Pistoia, e il territorio montano
bolognese i rapporti furono intensi e molteplici") Tutti questi
elementi di valutazione ci
paiono,
peraltro, sufficienti per attribuire, almeno per la nostra area di
interesse, un pieno carattere di fondatezza alle affermazioni del Balbo
e del von Pflung-Harthung secondo le quali la vitalità
dell'elemento germanico si è fatta sentire nel suolo italiano
"fino ai tempi nostri" (P. GRIBAUDI, "Sull'influenza germanica nella
toponomastica italiana", Società Geografica Italiana, Roma,
1902, p. 10) ravvivando "lo stanco sangue latino" (Ibid.). Una voce
contraria è rappresentata dal Salvioli che nega ai Germani una
parte efficace nella costituzione della nuova nazione italiana data
l'esiguità dei barbari che giunsero in Italia. A questa
obiezione del Salvioli il Gribaudi ebbe modo di controbattere che la
medesima avrebbe avuto un senso solo "se la popolazione italiana nel
Medio Evo fosse stata molto densa; ma il Salvioli stesso
s'industriò di dimostrare ch'essa era ridotta ai minimi termini"
(Ibid. ,p. 11). Testimonianze di Papa Gelasio e Procopio di Cesarea
sembrano confermare che la popolazione italiana fu davvero ridotta ai
minimi termini: "Tuscia et Aemilia ceteraeque provinciae in quibus
hominum propa nullus existit" (Sacrosanta concilia, V, Gelasius papa I
adversus Andromachum senatorem, col. 361); "Per il Piceno si dice che
non meno di cinquantamila contadini romani morissero di fame" (Procopio
di Cesarea, "Guerra Gotica", II, 20). Secondo Procopio di Cesarea, per
la sola Italia centrale, il
numero di morti causati dalla guerra gotica fu nell'ordine di milioni
(cfr. N. RAUTY, "Storia di Pistoia", vol. I, Firenze, 1988, p.
34). Attualmente si ritiene, tuttavia, che i Longobardi che giunsero in
Italia nel VI secolo furono poco più di trecentomila mentre la
popolazione italiana (pur falcidiata dalla guerra gotica) si aggirava
sui 7-8 milioni di persone (N. RAUTY, "Storia di Pistoia", vol. I, Le
Monnier, Firenze, 1988, p. 146) anche se alcuni autori (es. Enrico Sestan
in 'I Longobardi' in 'Storia della società italiana', vol. V,
'L'talia dell'alto medioevo', Teti editore, Milano, 1984, p. 74)
propendono per quantificare in appena 4 milioni di persone il numero
degli abitanti della penisola italiana a seguito della guerra gotica.
Questi numeri fanno ben comprendere
come i longobardi non furono in numero sufficiente per potere
"germanizzare" l'intera penisola italiana, ma sufficienti per
"ravvivare il sangue latino" in alcune aree geografiche anche di
importanti dimensioni come la nostra. A tal proposito varrà la
pena riportare anche ungiudizio di Paolo Bacchi riferito ai territori
dell'Alto Appennino Bolognese che furono sottoposti all'antica
giurisdizione civile dei Longobardi di Pistoia: "I Germani mantennero
la loro cultura a lungo, ben oltre i confini temporali tradizionalmente
accettati... Questo singolare fenomeno di attardamento culturale fu la
conseguenza di almeno due fattori: il numero degli invasori, abbastanza
alto da contrastare sul piano ideologico la popolazione autoctona ed il
carattere alpestre del territorio, che permise loro di conservare per
lungo tempo il loro modello di vita in una sorta di isolamento
cantonale" (Savena Setta Sambro, n. 14 (1998), p. 11). In ogni caso non
è da escludere che il rapporto tra popolazione italica e
popolazione germanica nella penisola si modificò in favore della
componente germanica anche a seguito delle nuove atrocità
compiute dagli invasori longobardi: "Mox effera Lamgobardorum gens, de
vagina suae abitationis educta, in nostra cervice crassata est, atque
hominum genus, quod in hac terra prae moltitudine nimia quasi spissae
segitis more surrexerat, succisum aruit. Nam depopulatae urbes, eversa
castra, concrematae aecclesiae, distructa sunt monastiria virorum adque
feminarum, desolata, ab hominibus praedia, adque ab omni cultore
destituta in solitudine vacat terra. Nullus hanc possessor inhabitat;
occupaverunt bestiae loca quae prius multitudo hominum tenebat et quid
in aliis mundi partibus agatur ignoro; nam hac in terra, in qua nos
vivimus, finem suum mundus non iam adnuntiat, sed ostendit" (Papa
Gregorio Magno) Da tutto
ciò ovviamente non può
e non
deve discendere alcuna DISGUSTOSA conclusione di tipo razzista, nazista
o simile, anche perché gli appartenenti al popolo dei Goti
avevano ben poche caratteristiche della 'bionda bestia germanica' di
nietszchiana memoria: "I goti divennero infatti cavalieri seminomadi dai
tratti marcatamente orientali, tanto è vero che gli osservatori
greci e romani del tempo erano portati a confonderli con stirpi
iraniche, come gli sciti o gli avari. E' notevole come una stirpe che
è stata percepita e presentata dalla cultura moderna,
soprattutto ottocentesca e primonovecentesca, come 'tipicamente
germanica' (e anzi come una sorta di popolo 'campione' di presunti
valori 'germanici') fosse invece ricondotta dagli antichi nel novero
delle etnie orientali; ciò ben sottolinea al contempo la
fortissima contaminazione culturale - ora riconosciuta dalla
storiografia - delle stirpi tardoantiche e altomedioevali e, di
conseguenza, l'improponibilità delle rigidi classificazioni, del
tutto convenzionali, cui si è stati per lungo tempo abituati (e
delle quali si fatica ad emanciparsi)" (C. AZZARRA, "L'Italia dei
barbari", Il Mulino, Bologna,2003, p. 48). "A proposito di tale
mausoleo [il mausoleo di Teodorico], è stato fatto recentemente
osservare come in esso vi siano elementi architettonici che fanno
pensare alle tende dei popoli mongoli, le yurte. Poiché tali
elementi sono limitati alla parte superiore dell'edificio, si è
avanzata la suggestiva ipotesi che Teodorico abbia improvvisamente
deciso di trasformare il monumento, fino allora costruito su disegno
tipicamente romano, in qualcosa che gli ricordasse la lontana infanzia
e i racconti dei suoi antenati" (R. BERTI, "Storia dei Goti", Edizioni
Helvetia, Venezia, 1982, p. 177). "I Goti, come altri Germani dell'Est, non furono influenzati dalle genti nomadi solamente nell'arte, nell'abbigliamento e nelle tecniche di combattimento, ma anche dal punto di vista sociale ed economico" (S. ROVAGNATI, "I Goti", Xenia, Milano, 2002, p. 93). Per
leggere un riassunto della storia dei
Longobardi clicca qui Longobardismi
e germanismi nell'Alto Reno
Pratese
(anno 2005): clicca qui Per
la storia dei Goti di Jordanes clicca qui Per
vedere la bibliografia usata per la
realizzazione
dell'articolo clicca qui Per
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di questo lavoroclicca qui (anni
2004, 2005)
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CIOCCO
DI NATALE A GAGGIO MONTANO
CIOCCO DI NATALE NELLA
GERMANIA CENTRALE
"Una pratica comune a
tutta l'Europa era quella del ciocco natalizio. Un ceppo che si poneva
a bruciare nel camino e che doveva durare almeno sino all'Epifania [12
giorni]...
Il ciocco' poi valeva anche come amuleto protettivo per tutto l'anno
seguente. Esso avrebbe dovuto consumarsi lentamente, senza mai
spegnersi del tutto, giacché ciò che ne restava garantiva
protezione e benedizione, ed un nuovo ciocco sarebbe stato acceso
soltanto con un pezzo dell'antico.
A Gaggio la tradizione consigliava di conservare i carboni del ceppo di
Natale sino a Capodanno: il primo giorno del nuovo anno tali carboni,
sparsi nei campi, avrebbero portato 'gran bene'"
( M. CECCHELLI, "Una castagna sotto il guanciale", Gente di Gaggio,
Gaggio Montano, 2001, p. 34-36)
"Che il ceppo natalizio
non fosse che l'equivalente invernale del falò di mezz'estate,
acceso dentro casa anziché all'aperto per via del tempo freddo e
inclemente, fu sottolineato molti anni fa dal ricercatore inglese John
Brand...
Fino a verso la metà del XIX secolo, l'antico rito del ceppo di
Natale sopravvisse in alcune zone della Germania centrale. Nelle valli
del Sieg e del Lahn, per esempio, il Ceppo di Natale, costituito da un
pesante blocco di quercia, veniva incastrato nel piano del focolare
dove, pur se esposto al fuoco, non bastava un anno per ridurlo in
cenere. Quando, l'anno successivo, lo si sostituiva con un blocco
nuovo, i resti di quello vecchio venivano ridotti in polvere da
spargere sui campi durante le dodici notte, fino all'Epifania, per
stimolare la crescita dei raccolti" (J. G. FRAZER, "Il ramo
d'oro", Newton Compton Editore, Roma, 1999, p. 702)
"Un altro racconto riguarda la chioccia dai pulcini d'oro o delle uova d'oro, che pare comparisse sulla piazzetta antistante alla chiesa di Lignana [Svizzera Pesciatina - PT] la notte di Natale, al canto del Gloria. Evidentemente la storiella racconta del desiderio comune un po' a tutti: il desiderio di diventare ricchi che, nella semplicità della gente comune, era immaginato come un evento quasi casuale... La chioccia dai pulcini d'oro si ritrova spesso nelle tradizioni popolari, soprattutto sull'Appennino toscano. Così a Sambuca si narra che fosse il tesoro della regina Selvaggia... Anche sulle pareti roccise del balzo nero [Bagni di Lucca - LU] si vedeva un luccicare strano e irreale e si udiva un chiocciare lento accompagnato da un pigolio. Era la chioccia che portava a spasso i suoi pulcini d'oro. Il fortunato che riusciva a vedere i pulcini prima che la chioccia lo scorgesse avrebbe trovato un mucchio di monete preziose... Alcune fonti attribuiscono l'origine della leggenda a Teodolinda, regina dei longobardi ed infatti, uno dei pezzi più preziosi del tesoro longobardo di Monza raffigura proprio una chioccia con i pulcini" (AA.VV., "Lignana", Associazione Culturale Armonia, Piteglio, 2005, p. 34)"
Peraltro uno studio più approfondito sulla favolistica (anche
colta) italiana potrebbe condurre gli studiosi a scoprire inaspettati
collegamenti tra la favolistica italiana e la mitologia germanica (clicca qui per saperne di più)
- "Freja non ha mangiato per otto giorni pensando a voi".
Trym rimase soddisfatto con quella risposta e stava per baciare Thor
travestito, ma quando vide gli occhi del dio ne rimane terrorizzato.
- "Freja non ha dormito per otto notti consumata dal desiderio di
vedervi", rispose
allora Loki
Trym venne così tranquillizzato da Loki e Thor riuscì a
rientrare
in possesso del martello.
E non appena in possesso del martello Thor, con un colpo terribile,
uccise Trym e la sua famiglia.
"Nell'ombra vasta che avvolge
la gelida terra
in un cupo mistero,
ecco il bel maggio che sorge
e l'immagine serra
a asquarciar questo velo"
(E. CECCHINI CATANI, "Prunetta", Pro Loco di Prunetta, Piteglio, 2001, p. 59)
Il 30 Aprile era per i paesi germanici la Walpurgisnacht (la notte di Valpurga) e durante quella notte si riteneva che le streghe si radunassero sulla cima delle montagne per adempiere alle loro stregonerie ed evocare diavoli e demoni cosicché i contadini si trovavano costretti a cercare di scacciare questi demoni (e queste streghe) attraverso delle speciali cerimonie. Il Maggio di Prunetta, attraverso questo brano, sembra svelare anche una funzione apotropaica in qualche modo legato alla stessa tradizione della Walspurgisnacht germanica.
CALAMECCA E SATURNANA
- FESTA DI SAN GIOVANNI (24 giugno)
GERMANIA
- FESTA DI SAN GIOVANNI (24 giugno)
DANIMARCA
E NORVEGIA - FESTA DI SAN GIOVANNI (24 giugno)
"Si
prepara una bella catasta di legna in Piazza e la sera di notte gli si
dà fuoco" (Maria Cioletti, scuola elementare di Calamecca, anno
scolastico 1298 - 29. citato in P. DE SIMONIS - C. ROSATI, "Atlante
delle tradizioni popolari nel pistoiese", m&m Artout, Pistoia,
2000, p. 137)
"E' oggi una merenda da consumare insieme, il 24 giugno, dopo la Messa, il momento comunitario che una volta era rappresentato dal falò sul quale ragazzi e ragazze saltavano come prova di un futuro matrimonio" (Ibid., p. 138)
"Uno
scrittore della prima metà del XVI secolo ci dice che, in ogni
villaggio e cittadina della Germania, si accendevano i falò la
vigilia della festa di San Giovanni e che tutti, giovani e vecchi,
uomini e donne, vi si radunavano intorno per ballare e cantare" (J. G.
FRAZER, "Il ramo d'oro", Newton Compton Editore, Roma, 1999, pp. 688 -
689)
"Anche
in Danimarca e Norvegia, la vigilia di San Giovanni si accendevano i
fuochi per le strade, negli spazi aperti e sulle colline; e i Norvegesi
credevano che quei fuochi scacciassero ogni malattia del bestiame" (J.
G. FRAZER, "Il ramo d'oro", Newton Compton Editore, Roma, 1999, p. 690)
E rimanendo in tema di serpenti chissà se il misterioso serpente
che compare nel celebre romanzo di Collodi ("Aveva veduto un grosso
Serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli
occhi di fuoco e la coda appuntuta, che gli fumava come una cappa di
camino"(C. COLLODI, "Pinocchio", cap. XX))non possa essere debitore di
qualche mito longobardo (tipo una versione popolare e ironica dei miti
di San Michele e San Giorgio uccisori di draghi): "il Serpente si
rizzò all'improvviso, come una molla scattata: e il burattino,
nel tirarsi indietro, spaventato, inciampò e cadde per terra. E
per l'appunto cadde così male, che restò col capo
conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria. Alla
vista di quel burattino, che sgambettava a capofitto con una
velocità incredibile il Serpente fu preso da una tal convulsione
di risa, che ridi, ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo
ridere, gli si strappò una vena sul petto: e quella volta
morì davvero" (C. COLLODI, "Pinocchio", cap. XX).
Una ironia tuttavia non così lontana da quella germanica per chi
conosce le avventure di Thor (per pura casualità anch'esso
uccisore di draghi come illustra una scena mitologica runica pubblicata
in N. DI MAURO, "Normanni", Giunti, Firenze, 2003, p. 9) con Utgard -
Loki e Skrymir (vedi l'Edda Poetica):
Allora esasperato, prese il martello e vibrò un colpo terribile
sul capo dell'omone addormentato. "Deve essere caduta una foglia
dall'albero", disse Skrymir destandosi, poi si voltò dall'altra
parte, e ricominciò a russare. Thor aspettò un poco, poi
diede un'altra tremenda martellata sul capo di Skrymir. "E' caduta una
ghianda?", domandò questi, svegliandosi per la seconda volta.
L'intera opera di Pinocchio meriterebbe, in ogni caso, un attento esame
anche dal punto di vista della filologia germanica. Ad esempio la
scelta di creare un burattino di legno in tutto simile ad un essere
umano può davvero essere considerata estranea al mito nordico
della creazione degli essere umani? Si confrontino, a tale, proposito i
seguenti brani:
"dopo aver creato il mondo ed aver dato vita alla stirpe dei nani, i
figli di Borr ripresero la via di casa. Giunti che furono sulle sponde
del mare, trovarono due alberi sbattuti a riva dalle onde. Erano un
frassino ed un olmo. I due tronchi giacevano sulla sabbia, senza vita,
senza energia, senza un destino.Allora Óðinn diede loro il
respiro e la vita, Vili diede loro la saggezza e il movimento,
Vé diede loro forma, parola, udito e vista. Così da due
tronchi inanimati venne la prima coppia umana. I figli di Borr imposero
loro dei nomi: l'uomo si chiamò Askr "Frassino" e la donna Embla
"Olmo". Gli dèi diedero loro delle vesti, come ricorda
Óðinn nel Canto dell'Eccelso"
"Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a
lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli
occhi. Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accorse
che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso. Geppetto,
vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n'ebbe quasi per
male, e disse con accento risentito: "Occhiacci di legno, perché
mi guardate?" Nessuno rispose..." (C. COLLODI, "Pinocchio", cap. III).
Tornando ai simboli andrà fatto un doveroso cenno anche alle
rune. Come è noto i Germani, prima di adottare l'alfabeto
latino, conoscevano un'altra forma di scrittura, simile a quella
alfabetica, chiamata runica (da runa = segreto, sussurro). La serie
runica (che generalmente viene fatto originare dall'alfabeto etrusco
per tramite della lingua venetica) era composta di ventiquattro segni
disposti in un ordine fisso. In Italia non esistono esempi di epigrafia
runica ad eccezione di un paio di iscrizioni nelle catacombe romane di
Commodilla e dei Santi Pietro e Marcellino e di alcune rune graffite
sui muri del Santuario di San Michele sul Gargano (l'iscrizione runica
del terzo leone dell'Arsenale di Venezia non può essere
considerata come "italiana" in quanto il leone stesso fu trafugato dal
Pireo nel 1687) , tuttavia in diverse incisioni rupestri presenti nel
territorio nazionale compaiono graffiti paragonabili alle rune "daeg" /
"dagaz" (una specie di farfallina stilizzata che rappresenta il giorno
e che lo studioso Leonardo de Marchi attesta già in età
etrusca), "tyr" (una sorta di freccia rivolta verso l'alto), "eiwaz" /
"elhaz" (una sorta di zampetta di gallo), etc. Esempi di questi
graffiti si ritrovano anche nelle incisioni rupestri (a carattere
magico - sacrale) poste tra le Valli della Brana, delle Bure e
dell'Alta Limentra Orientale (es: Sasso del Consiglio, Sasso di Catiro,
Sasso alla Pasqua, etc.). Che si tratti di relitti runici o relitti
dell'alfabeto etrusco (o ancora di una sopravvivenza d'antichi simboli
primitivi a cui gli etruschi stessi s'ispirarono nella redazione del
loro alfabeto) non c'è dato sapere, tuttavia riteniamo
estremamente significativa la persistenza, nella nostra area di
interesse, di testimonianze relative a un'attività incisoria
che molto potrebbe dirci sull'origine (o sulla fine) del sistema
alfabetico runico. Per chi vuole saperne di più si consiglia di
leggere: L. DE MARCHI, "I sassi scritti delle Limentre", Gruppo di
Studi Alta Val del Reno, Porretta Terme, 2000 e L. DE MARCHI, "Un
complesso incisorio di Arte rupestre in Val di Brana (Provincia di
Pistoia): i sassi scritti della Croce al Romito" in Nueter, n. 57 (anno
2003), pp. 52 - 58).
b) la 'vigna cum clausura' (un sistema che prevedeva di circondare le
piccole vigne delle zone collinari con una siepe di fasci arbusti
spinosi per impedire il furto dell'uva matura). Questo sistema
già menzionato in carte dell'VIII secolo rimase in uso nel
pistoiese almeno fino alla seconda guerra mondiale
(cfr. Ibid. p. 195)
Sempre tra i documenti di longobardi pistoiesi troviamo le tracce di un altro importante passaggio della 'preistoria' della nostra lingua nazionale:
"Anche la formazione del passivo analitico con 'esse' è divenuta normale: 'iram Dei incurrat et in Tartarum sit consumptus' Pistoia 767 (Cod. dipl. Long., II, p. 211)" (B. MIGLIORINI, "Storia della lingua italiana", Bompiani, Milano, 2004, p. 71).
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relativo alle unità di misura di superfici e lunghezze
Considerato, infatti, che: 1) i longobardi giunsero in queste montagne
partendo dalle loro basi in Toscana; 2) per secoli questi territori
appartennero alla "Iudicaria" Pistoiese; 3) le schiatte longobarde di
Bargi e di Stagno (signori di gran parte dell'Alto Reno emiliano e
toscano) furono fedelissimi alla causa pistoiese (XX)
4) già a partire dalla prima
metà del VII secolo i longobardi erano ormai profondamente
latinizzati (cfr. J. JARNUT, "Storia dei Longobardi", Einaudi, Torino,
2002, pp. 78, 105).
Riteniamo che ci siano elementi sufficienti per sostenere che la
componente toscana dei dialetti, e della cultura, altorenana sia,
paradossalmente, la più importante vestigia germanica
sopravissuta fino ai nostri giorni nelle alte valli del crinale
appenninico emiliano (sull'origine 'longobarda' dei dialetti
'pistoiesi' dell'Alto Reno vedi anche P. GUIDOTTI, "Il Camugnanese",
CLUEB, Bologna, 1985., pp. 89 - 90, sulle differenze culturali tra la
porzione dell'Appennino bolognese "germanizzato" dai pistoiesi e le
altre realtà appenninico - bolognesi cfr. R. ZAGNONI, "Il
Medioevo nella
montagna tosco-bolognese", Gruppo di studi Alta Val del Reno - Nueter,
Porretta Terme, 2004, p. 232). Questa risultanza pare peraltro
confermare la posizione di illustri linguisti quali Walther von
Wartburg ed Eduard Boehmer che individuano nel superstrato germanico la
causa delle differenziazioni dialettali nei paesi di lingua romanza
(cfr. C. TAGLIAVINI, "Le origini delle lingue neolatine", Patron
Editore, Bologna, 1999, p. 433)
Per chi non fosse
informato ricordiamo che la lingua
della cultura e della religione nelle regioni del Mediterraneo
Orientale era il greco.
(VIII) "Il
compianto amico Leonello Bertacci aveva avanzato, con tutta la
necessaria prudenza, l'ipotesi di un fondazione longobarda. Il nome di
Granaglione - questo egli pensò con felice intuito - potrebbe
derivare dalla radice germanica da cui provengono warnen, che significa
"osservare", "fare attenzione"; che è poi la stessa radice che
ha generato i vocaboli italiani 'guarinire' (vedi tuttavia il longobardo warnjan > preparare) e 'guarnigione',
nonché 'guardare' e 'guardia'. Il nome Granaglione, che nelle
carte medioevali più antiche ha sempre la forma Garnaione,
potrebbe quindi avere un significato simile a quello di Vernio,
cioè luogo munito e luogo di osservazione; significato che data
la situazione geografica, si addice alla nostra località ben
più che il riferimento divenuto tradizionale al 'grano' e alle
'granaglie, che nella zona sono quasi inesistenti" (A. Benati, "la
storia antica di Granaglione", in AA.VV., "Il mondo di Granaglione",
Tamari Editori, Bologna, 1977, p. 22). Alla pagina 42 di questo stesso
libro è riportato l'antico stemma della
Comunità di
Granaglione, significativamente composto da una torre
(le torri sono
postazioni di avvistamento) sulla sommità della quale sono poste
delle spighe di grano.
(IX) Il
passo di Paolo Diacono è in Storia dei Longobardi (I, 15) dove
attribuisce a 'lama' il significato di stagno (lat. piscina), per C.
Meyer la lingua Sassone aveva un vocabolo klamon di identico
significato.Tuttavia è da segnalare che il vocabolo "lama" col
significato di pantano è presente già nel poeta latino
Orazio. Tutte le ipotesi a questo punto sono possibili: a) il
vocabolo lama è una antica voce germanica assunta dai
latini in età classica come uro, alce, sapone, etc.; b) il
vocabolo 'lama' è una voce latina assunta dai Longobardi e
da altri popoli germanici; c) la voce 'lama' è un relitto
protoindeuropeo comune sia al ceppo germanico che a quello romanzo (ma
per
il Devoto il termine 'lama' è una voce mediterranea anaria)
Attribuire quindi tutti i toponimi del tipo 'Lama' ad una
origine germanica pare così esagerato, ma altrettanto esagerato
ci pare la posizione di alcuni studiosi che negano sempre e comunque
l'origine longobarda a tutti i toponimi del tipo 'Lama'. Ad ogni buon fine ricordiamo le parole della Nicoletta Francovich Onesti ("Vestigia Longobarde in Italia", op. cit. pp. 98 - 99): "LAMA 'stagno', 'peschiera'. Si tratta del latino 'lama' palude che risulta però quasi omofono con gli esiti longobardi del tema germanico 'laima' - limo (ags lam). Paolo se ne serve per illustrare il nome Lamissio... cfr. oltre a Lamissio anche i nomi propri Lamipert e Lamiteo"
(X) L'importanza attribuita
dai Longobardi all'allevamento dei maiali trova preciso riscontro
anche nelle Leggi di Rotari: infatti nel capitolo 'De greges aequorum
seu porcorum' per i ladri di maiali sono stabilite le stesse,
severissime, pene previste per i ladri di cavalli.
(XI) I
toponimi basati su cognomi, nomi, soprannomi con etimo longobardo o
germanico sono nella nostra zona di interesse particolarmente diffusi.
A titolo di esempio ne ricordiamo sommariamente tre: Cason di Becca
(nei pressi di Boschi di Granaglione), Casa Gherardini (nei pressi di
Spedaletto) e Casetta del Fiasco (nei pressi di Frassignoni), Lamberti
(sottofrazione di Santomoro).
(XIX) Anche il Gasparri risulta dello stesso parere: "le basi per la fusione dei due popoli c'erano tutte" (S. GASPARRI, "Prima delle nazioni, Popoli, etnie e regni fra Antichità e Medioevo, Nuova italia Scientifica, Roma, 1997, p. 149). Simili a questi pareri sono anche le considerazioni del
Sestan riportate da Natale Rauty nella sua opera sul "Regno longobardo
e Pistoia" (Società Pistoiese di Storia patria, Pistoia, 2005,
p. 178): "Forse coglie meglio la realtà storica una concezione
mediatrice, che può anche ammettere la discendenza frequente, ma
non generale, di quei gruppi di 'lambardi' da stirpi longobarde, ma
ormai nei secoli successivi etnicamente fusi con l'elemento romanico,
dimentichi di quella loro discendenza, ma ben coscienti della loro
posizione sociale". Che tuttavia questi 'lambardi' fossero così
dimentichi della loro discendenza longobarda pare
sconfessato da vari esempi come la progenia stagnense: "Un caso ancora
più interessante è quello dei lambardi Stagnenses,
ricordati in una cartula permutationis del 1175. Nella località
di Stagno, nella valle della Limentra orientale, che è stata
ritenuta la punta avanzata dello schieramento longobardo nel versante
nord dell'Appennino, di fronte al limes bizantino, si trova la
più tarda documentazione di una gens longobarda. Sul finire del
secolo X, il signore di Stagno era Sigifredi del fu Alboino, i cui
discendenti di nome Sigifrido e Agiki, definiti anche ex progenie
Stanise o Stangnenses erano nobili e si professavano di legge
longobarda. Sembra quindi, in questo caso, sia per la costante
onomastica tipica della gens longobardorum, sia per l'antichità
della documentazione che risale al X secolo, sia infine per la
professione di legge, che i Lambardi Stangenses citati nel 1175 fossero
effettivamente i discendenti o gli eredi della progenie Stansie, antico
gruppo parentale longobardo, stanziato cinque secoli prima nella valle
del Limentra" (Ibid. p. 180). Altri esempi di consorterie di Lambardi
nella Iudicaria Pistoriensis sono: a) nella pianura dell'Ombrone
Pistoiese - Bisenzio con Campo Magio, Vignole, Agliana, Iolo); b) nelle
zone collinari del Montalbano con Castellina dei Lombardi, Casalguidi,
Tizzana e Carmignano, c) nelle valli delle Limentra con sambuca, Torri;
d) in Valdinievole con Buggiano, Montecatini e Bibiano; e) nell'Alto
appennino Bolognese con Ripoli, Monte Vigese, Vimignano. Tornando al problema della fusione delle due stirpi (romana e longobarda) merita, infine, uma lunga citazione da Rauty: "Già dalla legislazione del secolo VII appare quindi manifesto un ricambio sociale: individui romanici d'elevate condizioni economiche, che acquistano privilegi in origine riservati agli exercitales; chierici longobardi, e spesso anche i loro familiari, che seguono la legge romana; la possibilità di celebrare matrimoni misti senza impedimenti... Per i matrimoni misti è rimasta a Pistoia la memoria di una 'charta' del 779 del longobardo Avufuns, la cui moglie aveva il nome tipicamente romano di Lucida" (N. RAUTY, "Il Regno longobardo a Pistoia", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2005, p. 286).
(XX) "I
Bizantini, che non avevano forze disponibili per contrastare in campo
aperto l'esercito nemico, si ritirarono sull'Alto Appennino lungo una
linea assai arretrata, difesa da una serie di fortificazioni fisse. Si
realizzò così un nuovo limes a difesa della base
strategica di Bologna, che dal Mugello raggiungeva il Frignano,
attraverso le valli del Sambro, della Setta e la media Valle del Reno.
Sulla sopravvivenze longobarde nella Valle del Randaragna clicca qui
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Per leggere la "Storia dei Longobardi" di Paolo Diacono clicca qui
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tutti i tempi)