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L'ARCHITRAVE DELLA CHIESA DI SAN BARTOLOMEO A SPEDALETTO

Ai primi di aprile 2003, quando una spruzzata di neve, era ancora presente a Spedaletto, abbiamo voluto visitare il paese, soffermandoci sulla Chiesa e sul suo architrave.

Senza alcuna pretesa scrviamo le nostre impressioni di viaggio:

1) anche noi, come altri, abbiamo scorto l'impronta di una figura umana (probabilmente dal modellato rozzo, simile a quello della Badia di Montepiano (prov. Prato);

2) anche noi abbiamo rilevato la possibile presenza di un drago, da cui pare scaturire un tralcio di vite;

3) anche noi siamo rimasti colpiti dalle due protomi, il cui significato lo abbiamo già illustrato nella pagina dedicata alle mummie.

Quello che ci ha lasciato, e ci lascia perplessi, è l'attribuzione della protome di sinistra: un lupo? un guerriero?

Per il lupo sembra dar credito l'Amendola e il Redi ("Chiese Medioevali del Pistoiese", Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 174). A supporto di questa ipotesi è lo strano ghigno e la forma ferina della protome.

Per il guerriero sembra dar credito Paola Porta (AA.VV. "La Sambuca Pistoiese", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, p. 121). A supporto di questa ipotesi il fatto che la "criniera a squame" della protome ricorda molto anche un elmo di metallo con borchiette sferiche.

Quale che sia la attribuzione della protome va da se, comunque, che essa rappresenta la ferocia e il male.

La protome di sinistra sembrerebbe invece o un demone o un "uomo selvatico" (creatura il cui mito è ben attestato anche in Alto Reno).

Da segnalare la presenza di una mensola con volto umano sull'angolo nord della chiesa (cfr. Nueter, 1979, n. 2, p. 51)


LA BUCA DEL DIAVOLO E LA LEGGENDA DEL MAIALINO

Sulla Buca del diavolo (deta anche "Tana della volpe" o semplicemente "Tana") si racconta di un maialino che penetrato al suo interno ne uscì a grande distanza con le setole bruciacchiate (cfr. "Dizionario Toponomastico del Comune di Sambuca Pistoiese", Pistoia, 1993, p. 167 - L. DE MARCHI, "I sassi scritti delle Limentre", Porretta Terme, 2000, p. 44). Nessuno, tuttavia, ha ritenuto opportuno approfondire il perché di questa leggenda. Ci è parso giusto, dunque, farlo noi è siamo giunti alle seguenti conclusioni:

Esiste un rapporto diretto tra la leggenda del maialino e il nome del posto ("Buca del diavolo"), tale rapporto è inseto nella tradizione favolistica toscana e in particolare nella favola di "dodicino":

"I frati] lo mandarono all'inferno con l'incarico di riportare al convento il Diavoluccio Rosso ...Dodicino prese tranquillamente la strada seguito da un porcello che aveva chiesto prima di partire ... [Giunti all'Inferno] i diavoli armati di forconi e rampini arrivavano da ogni parte per vedere di acchiappare il porchetto, ma facevano solo la più grande confusione, dato che l'animale era furbo e trovava tutte le strade e tutti i nascondigli e faceva cadere pentole d'olio bollente, rovesciava bracieri e carriole di carbone, rovinava e fracassava glistrumenti di tortura ..." ("Dodicino", da "Fiabe Toscane", Oscar Mondadori, Milano 2002, pp. 8-9).

La fiaba di Dodicino deve essere giunta fino a Torri e qui associata a quella strana caverna dove erano incisi segni pagani e, quindi, diabolici (le croci cristiane incise sulle pareti della Buca del diavolo erano "utili a riconsacrare il motivo precedente" (L. DE MARCHI, "Op. cit", p. 95) e, dunque ad esorcizzarlo). La leggenda ci spiega dunque (sia a livello di documentazione secondaria) non solo perché vennero incise numerosi croci sulle "pietre scritte", ma anche il perché delle numerose abrasioni dei segni magici che le ricoprivano.


CASTAGNI "SPECIALI" A GRANAGLIONE

L'ALBERO DEL VINO - Si tratta di un castagno plurisecolare che si trova al Pratone di Lustrola.Il 10 agosto di ogni anno, in una cavità all'interno del tronco, viene posta una damigiana dalla quale si spilla il vino attraverso un rubinetto.

CASTAGNO NIC - NIC - Anche questo castagno plurisecolare si trova a Lustrola. La sua fama (e il suo nome onomatopeico) deriva dalla tradizione che vuole che nella sua accogliente cavità si consumassero incontri amorosi.

IL CASTAGNO DI GRANAGLIONE - Secondo Nueter (m. 1, 1975, p. 17) alla metà del XIX secolo esisteva un imponente castagno attorno al quale si raccoglieva, prima di un matrimonio, l'allegra brigata dei convitati che cantavano in girotondo una allegra filastrocca:

"Questo è il castagno fiorito,

tu sarai mio marito!

Questo è il castagno dalle foglie,

tu sarai mia moglie!"


COSTELLAZIONI LOCALI

Nel corso della storia, fin dai tempi più antichi, gli uomini delle più diverse culture hanno visto negli asterisimi delle plaghe del cielo le più differenti figure: guerrieri (Orione) e contadini (Bifolco), animali mitologici (drago, idra) e creature più modeste (corvo, lucertola). Dante scorgeva tra le regioni celesti una "grande lasca", altri pensavano che la Via Lattea non fosse altro che il corrispondente uranico della via Giacoma (la nostra Francigena) e così via.

Una testimonianza del signor Credi Primo (morto nel 1990 e originario di Iola di Montese) c'informa dell'esistenza (almeno ai tempi della sua gioventù) di una costellazione della chiocciola che, prima delle altre, sorgeva nel cielo di Montese.

Siamo convinti che non si tratti di un caso isolato, ma che in altre località del nostro appennino - tosco emiliano e del nostro Alto Reno esistano altre costellazioni conosciute solo a livello di paese o vallata.

Sarebbe importante catalogarle e, possibilmente, comprenderne l'origine prima che la memoria delle generazioni più anziane scompaia facendoci perdere questo patrimonio di civiltà locale.


il crocifisso di Porretta

manifestazione del sacro e crisi dell'uomo in una scultura che provocò scandalo nella Roma controriformista

L'arte è uno dei fenomeni più caratteristici della religiosità cristiana perché ricerca le fonti della vita esprimendo la potenza del sacro. L'opera sacra, infatti, è immagine che rinvia ad altro, ed è artisticamente bella se ha qualcosa d'incompiuto dato che rappresenta una promessa in attesa di compimento secondo lo stile della rivelazione:

"ora vediamo come in uno specchio, ma allora vedremo faccia a faccia" (I Lettera di S. Paolo ai Corinzi, capitolo 13, versetto 12)

Il Crocifisso di Porretta, con la sua immediata espressività, sembra corrispondere perfettamente a queste premesse, trasformandosi in una sorta di "sermone silenzioso". Si osservi il viso dolcemente rassegnato, il sangue che esce dal costato e il tronco contratto nello spasmo dell'agonia. Tutti questi elementi rappresentano perfettamente il Cristo nel momento della più atroce sofferenza, secondo la tradizione che affonda le sue radici nel sentimento francescano e nella tradizione popolare più vera. Quest'opera, dunque, non è semplicemente "arte", ma bensì qualcosa di "sacramentale": una ierofania del dolore che unisce l'umano al divino.

E' forse questa la ragione per cui la scultura creò scandalo a Roma quando fu realizzata:

"Il crocifisso di Porretta fu scolpito a Roma nel 1637 ed era originariamente destinato alla Chiesa di San Francesco a Ripa, sempre a Roma, ma non piacque perché troppo verista e sconvolgente peril gusto di un secolo che esigeva forme distese anche per sculture che, come la nostra, rappresentano il dramma dell'uomo - Dio" (Bollettino Parrocchiale di Porretta Terme, n. 2 / 1969, p. 4).

Ed in effetti la forza espressiva dell'opera, la sua forma tesa e vibrante, ne fa sicuramente il capolavoro di una corrente artistica contestataria dei rilassati gusti controriformisti. E in questa sapienza artistica ed umana dell'autore del Crocifisso porrettano (Fra Innocenzo da Petralia) ci pare di scorgere non solo chiari riferimenti all'opera scultorea forte ed energica della scuola castigliana e sivigliana dell'epoca (Gregorio Fernandez, Francesco Ruiz Gijòn, etc.), ma anche l'eco dell'arte di un Matthias Grunewald (la crocifissione della pala di Colmar) o di un Giovanni Pisano (si pensi ai crocifissi ligni di Pistoia): artisti che in epoche e luoghi diversi hanno interpretato la crisi dell'uomo nella sua mondanità con straordinaria sensibilità e raffinato umanesimo. Umanesimo che la semplicità degli artisti locali aveva arricchito, nel caso del crocifisso Porrettano, attraverso ingenue aggiunte (come la corona di spine), sorta di parlanti testimonianze di una devozione sincera e umile.

Il restauro degli anni '90 a cui il Crocifisso è stato sottoposto, con i discutibili criteri della filologia pura, ci hanno irrimediabilmente sottratto quelle "reliquie" che parlavano alla maniera del popolo pietoso.

La vicenda del Crocifisso porrettano rappresenta un monito per restauratori e committenti: l'arte non nasce da una leziosa ricerca del purismo filologico, ma dal rispetto della spontaneità in tutte le sue forme. Splendide in proposito le parole del filosofo J. Maritain: "il manierismo è la prigione, non il parto della bellezza".



CULTURA APPENNINICA

Le straordinarie somiglianze tra le tradizioni di Piteglio e quelle dell'Alto Reno

Quanto siamo "Padani" e quanto siamo "Toscani"? Un confronto con le tradizioni di Piteglio (Comune in Provincia di Pistoia) offre risposte sorprendenti, confermando l'unica cultura appenninica.

1) LA POSA DELLE PIETRE

Alto Reno

Chi si reca alla Madonna del Faggio (sopra Castelluccio e la Pennola) in pelligrinaggio lascia dei sassi raccolti sul cammino sia sopra le croci che sorgono lungo lo stesso, sia ai piedi del Faggio dell'Apparizione (o meglio ai suoi resti).

Piteglio

Durante le "Rogazioni al Monte" i fedeli raccolgono un sasso e lo portono sino alla sommità del Monte Torricella, posandolo sopra un cumulo di pietre situato tra due croci di legno.

Spiegazione

Trattasi di un rito antichissimo dai molteplici aspetti: quello di offerta alla divinità, quello di liberazione dai propri peccati (a Piteglio si dice "Io ti aggravo, Dio mi sgravi"), quello di unione fra il credente e la divinità.

2) LA BORDA

Alto Reno

Secondo Guccini è una specie di strega legata all'acqua e particolarmente ai pozzi: "Non sporgerti che c'è la Borda che ti tira di sotto" (Croniche Epafaniche p. 170 e Nueter, 1981, n. 2, p. 3).

Piteglio

Alla Pieve vecchia di Piteglio è incisa una vecchia intenta alla filatura, la tradizione vuole che si tratti di una strega che prende adulti e bambini per buttarli nel vicino pozzo dell'acqua.

Spiegazione

Le acque del pozzo partecipano della dimensione sotterranea e, dunque, della dimensione ctonia e infernale. Poiché, fin dai tempi più remoti, l'acqua è dimora di creature soprannaturali, va da sé che l'acqua dei pozzi sia in qualche modo legata a spiriti maligni.

3) LE FATE

Alto Reno

In Alto Reno vi sono diverse località in qualche modo legate al mondo delle fate, come Cà di Poldo presso Silla (cfr. M:CECCHERELLI, "Una castagna sotto il guanciale", Gente di Gaggio, Gaggio Montano, 2001, p. 158).

Piteglio

Anche a Piteglio vi sono diversi toponimi legati al mondo delle fate come "il sasso delle fate", "la Pilla delle Fati", etc.

Spiegazione

Le fate sono creature legate all'acqua dalla natura duplice (benevola / malevola), confermando la natura sacra e ambigua dell'acqua stessa. è l'acqua che consente la vita, ma è sempre l'acqua che provoca disastri e fa annegare le persone.

4) I MAGGI

Alto Reno

I Maggi sono una tradizione molto presente sia nell'Alto Reno emiliano che in quello toscano (clicca su I MAGGI)

Piteglio

Il Cantamaggio di Piteglio è sorprendentemente simile a quelli dell'Alto Reno, anche nel Canto della questua, nella richiesta di uova e nella maledizione tradizionale:

ALTO RENO

PITEGLIO

"VIENE DI MAGGIO

CHE FIORISCE L'ERBA

LE VOSTRE GALLINE FACESSER SOLO MERDA

E BENE VENGA MAGGIO"

"SE DUE UOVA NON CI DATE

PREGHEREM PER LE GALLINE

CHE DA VOLPI E DA FAINE

VI SIAN TUTTE DIVORATE

SE DUE UOVA NON CI DATE

In entrambi i casi, terminato il "giro del maggio", con le uova raccolte si preparavano delle frittate. Inoltre sia a Piteglio che in Alto Reno (cfr. Nueter, 1978, n. 2, p. 19) era diffusa la tradizione di dichiarare il proprio amore ad una ragazza attraverso il Canto del Maggio.

Significato

Le feste della Primavera (a cui il Maggio si ispira) sono fondate sul mito della nascita del mondo, del rinnovamento ciclico della natura, della resurrezione. E' per questo che si cercano e si consumano le uova, simbolo cosmico per eccellenza, germe dal quale ha origine la vita, ed è sempre per questa ragione che il Maggio è una occasione per professare il proprio amore che costituisce il primo passo verso la realizzazione di una famiglia e quindi di un nuovo stauts (una palingenesi) per il maggiante che si dichiara.

5) LE CROCI NEI CAMPI

Alto Reno

A Pavana, come in altre località dell'Alto Reno, venivano piantate croci nei campi per tenere lontano la grandine (cfr. Nueter, 1978, n. 2, p. 4).

Piteglio

Anche a Piteglio venivano piantate in mezzo ai campi coltivati delle croci, allo scopo di preservarli dalle avverse condizioni climatiche come tempeste o siccità.

Significato

La credenza che la zona aerea fra il cielo e la terra sia il dominio di demoni atmosferici è molto antica ed è accolta dallo stesso San Paolo (Efesini 6, 12). A difesa dei campi, quindi, fin dall'antichità cristiana, si ponevano sopra i campi delle croci difensive.

6) IL BOSSO

Alto Reno

A Pavana si giocava, durante il periodo della quaresima, il "fuori il verde". Così è descritto da Francesco Guccini:

"I due che decidevano di giocare, dovevano sempre portare addosso un rametto di bosso ... perché il gioco consisteva nel sorprendere l'amico avversario in situazioni in cui non potesse avere addosso il rametto" (Nueter, 1978, n. 2, p. 18)

Questa tradizione era viva anche a Lizzano col nome di "fiore verdo" (cfr. La Musola n. 33 (1983), pp. 1 -3). Chi non aveva indosso o in bocca il rametto di bosso doveva dare al compagno di gioco un uovo per Pasqua.

Piteglio

"Durante il periodo quaresimale i giovani usavano fare un gioco detto "a verde" o "a verde in bocca". Il gioco consisteva nel tenere indosso un ramoscello di bosso e, quando i partecipanti si incontravano occasionalmente, il più scaltro, mostrando il piccolo ramo, gridava. "verde?!". L'altro, esibendo il proprio, rispondeva: "verde anch'io!!"" (G. MUCCI, "Fattocisiècche ...", Pistoia, 1999, p. 52)

Significato

La scelta del gioco fondato sul ramo verde è legato agli antichi culti arborei ed è basato sul presupposto del ramo verde come simbolo di rigenerazione ed immortalità.

7) I SASSI SCRITTI

Alto Reno

Dei "Sassi Scritti" posti fra i Comuni di Sambuca Pistoiese e Cantagallo si è detto e scritto molto (cfr. Leonardo de Marchi, "I Sassi scritti delle Limentra", Nueter, Porretta terme, 2000). Si rimanda anche a quanto scritto in altra pagina di questo sito (clicca su tradizioni orali).

Piteglio

A Piteglio esiste un caso sorprendente di "Sasso Scritto" in tutto simile a quelli dell'Alto Reno:

"Un suggestivo esempio di come alcune rocce rappresentin un antico mezzo di comunicazione, ed al tempo stesso rechino scalfiti immagini o simboli sacri, è messo in evidenza da una roccia locata in prossimità della piazza del paese di Piteglio. Un "Sasso Scritto", meritevole di appropriati studi, sulla cui superficie compaiono molteplici idiogrammi (e forse grafemi), fossette e coppole, numerose croci ed ancora, sovrapposta ad una figura somigliante ad un guerriero in arme la frase in latino: "INIMICI / HOMINIS / DOMESTICI /CI"" (G. MUCCI, Op. cit., p. 55).

Significato

Il Significato dei "Sassi scritti" è estremamente complesso, pieno di rimandi a culti astrali, delle terra, della fertilità, dell'acqua. Le coppelle, ad esempio, pare significassero sia l'utero materno che l'acqua feconditrice. In ogni caso la roccia evoca in sé il potere della terra, la cui energia può essere trasmessa a tutti coloro che toccano la pietra stessa.

8) GLI SPIRITI DELL'ACQUA

Alto Reno

Ricordata alla voce "Borda" del Dialetto del Pavanese di Guccini (edizioni Nueter, 1998) la credenza di non bere acqua alle fontane nelle ore notturne poiché potrebbe entrare nel corpo un spirito.

Piteglio

Anche a Piteglio esiste la credenza di non bere alle fontane nelle ore notturne per paura che possano entrare nel corpo gli spiriti che vivono nell'acqua.

Significato

In quanto fonte di vita l'acqua è elemento eminentemente sacro; è noto che al concetto di sacro si accompagna anche quello di proibizione (si pensi al latino "sacer"). Il "tabù" viene dunque collegato a spiriti che si manifestano nelle ore notturne, tradizionalmente legati all'Erebo e a Ecate.

* * * *

La nostra è dunque più una cultura toscana e appenninica (oltreché pagana) che una cultura "padana". Significativamente anche alcune storie raccontate dalle nostre parti (come il ballo angelico ricordato in tradizioni orali) appartengono più a un substrato appenninico e centroitalico; un esempio è offerto dalla favola pavanese del bambino che buttava le briciole di pane (raccontata da Guccini a pagina 81 delle Cronache Epafaniche), del tutto identica a un racconto tradizionale di Viterbo raccolta ne "Il Libro delle Veglie" pubblicato da Vallardi nel 1988 (pp. 175 - 176, 179).



LA FERROVIA ALTO PISTOIESE (FAP)

(da "Microstoria" , n. 7 (2000) p.21)

"Scendendo dal treno a Pracchia non poca curiosità desta, in coloro che vi giungono per la prima volta, il piccolo edificio prospicente con la scritta Ferrovia Alto Pistoiese: era questa, un tempo, la stazione capolinea di quel piccolo gioiello di ingegneria ferroviaria che, snodandosi per poco più di 16 km nel cuore dell’Appennino pistoiese, raggiungeva tra boschi e ampi prati, in un suggestivo scenario di monti San Marcello Pistoiese e Mammiano… Aperta nel 1926 … la Ferrovia Alto Pistoiese (FAP) costituì per un quarantennio una vitale arteria di collegamento tra l’Alto Appennino e la sua più vicina via di comunicazione su rotaia: la Porrettana …. Sorta più per scopi di collegamento industriale, la FAP vide con gli anni incrementare l’affluenza di turisti ed escursionisti che inizirono a servirsi del simpatico "trenino della montagna" per raggiungere mete da visitare o da cui far iniziare magnifiche escursioni verso la foresta del Teso, del Corno alle Scale o del Lago Scaffaiolo…
Con la guerra d’Etiopia prima e il secondo conflitto mondiale poi, la Fap toccò livelli record di trasporto raggiungendo, nel biennio ’35 – ’36, i 342.000 viaggiatori e le 52.000 tonnellate di merci traspoertate. Dopo le distruzioni operate dai tedeschi nel ’44, specie nel tratto Pontepetri – Pracchia, si ebbe una timida ripresa del traffico non sufficiente però a riequilibrare il deficit, pur essendosi provveduto a un’ulteriore riduzione dei dipendenti della Società, ridotti a sole 19 unità. Malgrado infatti fossero stati raggiunti notevoli livelli di trasporto (462.112 passeggeri nel 1957 passati però a 412.441 nel 1063) l’incremento di trasporto su gomma portò a rendere impossibile la coesistenza con quest’ultimo che, sempre più osteggiato, termina la propria esistenza con la sua ultima malinconica corsa del 30 settembre 1965.


GIOCHI PISTOIESI A PAVANA

il gioco del Nocino - vedi la voce "bocco" nel "Dizionario del dialetto di Pavana" di Francesco Guccini a pagina 36 e la voce "bocco" a pagina 52 del "Vocabolario Pistoiese"

il gioco del Chioccaballe - vedi la voce "chioccaballe" nel Dizionario di Guccini a pagina 45 e la voce "chiocco" a pagina 69 del Vocabolario Pistoiese

il gioco di Palle o Santi - non è altro che testa o croce, ma secondo l'usanza delle antiche monete toscane (p. 129 alla voce "palle" del "Vocabolario Pistoiese" e p. 71 alla voce "palle" del Dizionario di Guccini)

F. GUCCINI, "Dizionario del dialetto di Pavana", Nueter - Pro Loco Pavana, Pavana - Porretta Terme 1998

G. GIACOMELLI, "Vocabolario Pistoiese", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2000


I MULAI

Mestiere antico, mestiere gramo, fra mosche e boschi, là dove di norma non giungono i trattori… Questo era il mulaio.
Quasi leggendari esponenti di un mondo diverso, di tanto in tanto, compaiono, fra i nostri monti, gli ultimi mulai a trasportare carbone di legan o gli alberi disboscati nel lavoro di "smacchiamento".

Uno delle ultimi occasioni per vederli all’opera è stata qualche anno fa sopra a Valverde, ed è di alcuni anni fa l’intervista a un mulaio presso la Collina, andata in onda su Appennino TV il 13/03/2003.
Una cosa ci ha colpito di questa persona già anziana: l’uso del passato …
Egli stava lavorando, continuava il suo antico mestiere caricando muli, ma usava il passato … quasi fosse un fantasma …
Ma anche il presentatore ci ha colpito col suo continuo sottolineare che quel documentario è un contributo per ricordare senza rimpiangere il passato.
Perché ripeterlo così spesso? Perché sottolinearlo?
Mulaio e presentatore sono il paradigma del terribile oggi dell’Alto Reno.
Un presente che vive solo in quanto passato e un passato che deve continuamente giustificarsi per sopravvivere.
E noi, impotenti, a guardare … la TV … a leggere … Nueter … a scrivere queste pagine web …
Una cosa, però, vogliamo gridarla: non vogliamo più giustificarci, non vogliamo sentire gente che si giustifica per poter parlare del nostro passato.
Lo dobbiamo a noi stessi e … alla futura memoria ….

14/03/2003


IL MANGIARE DEI MONTANINI

Si parla delle montagna di Pistoia, ma possiamo dire le stesse cose per l’Alto Reno bolognese.

"Tra le tante realtà culinarie toscane, è ben presente quella della Montagna Pistoiese, con le ricette dei "montanini", ricette modeste, create con i principali ingredienti che la montagna ha sempre offerto: castagne, funghi, frutti di bosco e del sottobosco, verdure, trote e broccioli. Oltre ai prodotti ottenuti dal latte e dall’allevamento di suini.
Il castagno è sempre stato fonte di benessere per le famiglie della montagna, dando legna da ardere, da lavorare, frasche per nutrire le bestie quando mancava la pastura, ed il suo frutto apprezzatissimo, dal quale si otteneva e si ottiene la farina dolce. La castagna fresca può trasformarsi in frugiata (bruciata), se arrostita nella classica padella coi fori, oppure in ballotto, se fatta lessare in acqua salata e alloro. Per ottenere la farina, invece, le castagne dopo il raccolto, venivano portate nel metato (detto anche caniccio), piccolo casottoa due piani usato come essicatoio, dove il fuoco rimaneva acceso per quaranta giorni e le castagne, poste al piano superiore, venivano "vegliate" a turno dai familiari, girandole una sola volta nell’arco di venti giorni. In seguito erano raccolte con il "giornello", pala di legno, inserite in mastelli dove due uomini con pali detti "triboli", le pestavano per liberarle dal guscio. Successivamente, le donne, ponevano le castagne e le bucce in vassoi di legno e squassandole le liberavano dalla pula, detta "ventolacchio". Dopo la pestatura e la mondanatura si portavano al mulino per farne farina, che sarebbe stata conservata per un anno intero ben pressata nei magazzini (cassoni di legno di castagno), messi in luogo ventilato.
" (Giacarlo Jori, Alta Montagna Pistoiese, Diple Edizioni, Firenze 2001, p.230)

Con la farina di castagno si ottiene il neccio (una specie di focaccia cotta nei testi), il castagnaccio, la polenta dolce e i manufattoli (una specie di polenta liquida a cui aggiungere aceto o latte).

Per quanto riguarda i Mulini, oggi ne sono funzionanti pochissimi nella nostra Montagna, ad esempio a Mulino di Fossato).


IL CARATTERE TOSCANO DELLE FIABE ALTORENANE

Parlare di un carattere regionale delle fiabe è argomento difficile, ancora più difficile è attribuire un carattere regionale ad un'area ristretta e particolare come l'Alto Reno. Le fiabe, si sa, ripercorrono archetipi e principi universali... Esiste una koine favolistica comune a intere popolazioni solo lontanamente imparentate fra loro. Nel caso di Emilia - Romagna e Toscana, poi, le fiabe regionali presentano una tale somiglianza sia come trama, che come espedienti, che è veramente difficile tracciare un vero confine (moltissime favole e fiabe sono addirittura identiche (1)).

E' tuttavia se esiste un carattere regionale delle fiabe si direbbe che in Alto Reno esista un carattere toscano...

E in cosa consiste questo carattere distintivo toscano? Mario Luzi così lo riassume:

"A me sembra che i caratteri toscani sono riconoscibili nella asciuttezza immaginativa di queste (a taluno potrà perfino sembrare si tratti di aridità) e nello stringato uso del meraviglioso come di un codice assimilato e di un alfabeto convenzionale ai fini prevalenti del raccontare, anzi del novellare.

E' abbastanza frequente imbattersi in passaggi dove la innocente malizia di colui che adempie all'ufficio e sa di farlo per un gioco accettato allegramente dal recitante e dall'udienza come intrattenimento sottilmente paradossale si burla quasi di se stessa. Quella che i romantici chiamavano 'sospensione del senso di incredulità' è minima, ma è subentrato in compenso un altro stato tipico della cultura, voglio dire della mente toscana. Si tratta in sostanza di una sfida della spericolata facoltà di gioco e quasi lucida follia nei confronti della ragione mai dismessa, mai vacante. Esaurita alla svelta la riserva di credulità, rimane un oiù amaro e un po' crudele esercizio della mente e delle sue funzioni: un esercizio prossimo alla provocazione" (2)

E questo modello pare perfetto per molte favole dell'Alto Reno, così come ci illustra anche il seguente esempio raccolto a Badi (3):

La donna che non voleva far niente

C'era una volta una donna. Questa donna si chiamava

Maria; suo marito si chiamava Tonio e andò in Maremma.

Lei restò a casa: avrebbe dovuto filare ma era una

pelandrona, non aveva voglia di far niente. Suo marito

stette via dieci mesi e lei, in tutto quel tempo, riuscì a

preparare tanto filo da fame solo due acce (matassine).

Una sera alle nove arrivò il marito. Bussò. Lei stava a

letto e si disse: "Questo è il mio uomo che torna da

Maremma". Le prese un grande sgomento: non é:\veva

nemmeno una camicia per coprirsi e non scendeva ad

aprire. Suo marito bussò un'altra volta, e lei: "Che devo

mettermi davanti? Ohimè, non ho nemmeno filato.

Chissàcosa dirà mio marito, che non ho fatto niente!".

Ionio tornò a bussare. Lei venne giù, aprì la porta.

Chieseal marito: «Come va?». E lui: «Ame va bene. lo

son svelto!». .

Si misero a letto e dormirono fino alla mattina.

La mattina dopo Tonio le disse: «Portamt qui il tuo

lavoro di quest'inverno, che voglio vederlo». «Subito»,

rispose la Maria. «Però tu Tonio devi renderti conto che

io sono stata malata: non potevo far niente e ho filato

soltanto due acce.» «Sì», disse Tonio «ho capito. Hai

fatto la pelandrona come al solito e adesso non parliamonepiù.

» .

Dopoun po' di tempo Tonio si recò alla fiera con degli

altri uomini. Gli altri comprarono dei vestiti per le loro

moglie lui non comprò niente. Tornò a casa dalla Maria :e lei gli chiese:

«Non mi hai comperato niente alla

fiera?». Lui: «Guarda un po' me ne sono dimenticato!

Sarà per un'altra volta».

Andò a finire che litigarono. Lui le disse: «Sciocca,

stupida, fannullona. Ti avevo lasciato da filare e se tu

avessi fatto quello che dovevi i vestiti potevi comprarteli

da sola». «D'ora in avanti» le promise «se vorrai

vestirti dovrai sgobbare, perché io non ti comprerò più

niente!»

Lei lasciò che la sfuriata finisse; poi andò in chiesa,

s'inginocchiò davanti alla Madonna e cominciò a chiederle

la grazia che il marito le comprasse dei vestiti. Le

diceva: «O tu Madonna che sei la più santa, fa' che mio

marito mi compri dei vestiti perché ne ho tanto bisogno,

sono nuda!».

Il marito si era nascosto dietro all'altare. Sentendo la

preghiera di sua moglie le disse: «Fila!» anzi glielo

ripeté tre volte. La Maria credette che a parlare fosse

stato il bambino Gesù e lo sgridò: «Tu sta' zitto! Lascia

parlare tua madre». Ma Tonio ripeté ancora più forte:

«Fila!».

Allora la Maria tornò a casa. Suo marito era arrivato

prima di lei e le chiese dove fosse stata; lei non voleva

dirglielo. Alla fine, tutta stizzita, raccontò che era andata

a pregare la Madonna perché le facesse la grazia di

vestirla. «E lei che cosa ti ha risposto?» domandò il

marito. La Maria: «Mi ha detto fila! tre o quattro volte;

prima me l'ha detto il bambino, poi me l'ha detto lei e

insomma anche la Madonna vuole che io fili, dovrò

proprio mettermi a filar~».

Il marito: «Vedi? Te l'avevo detto ancor prima di

partire, ma tu non volevi credermi!».

Dilì a pochigiorni si feceuna festa da ballo. Luivenne

a casa, le chiese: «Vuoi che stasera andiamo al ballo?».

«Non son capace» disse la Maria. E il marito: «Com'è

successo questo fatto? Prima ballavi, e adesso non sei

più capace?».

La Maria: «La verità è che non ho un vestito da mettermi!

».

«Ti do la mia mantellina» disse il marito. «E per

coprirti sotto puoi usare le tue acce: metti tele così, una

davanti e una dietro.»

Andarono alla festa: l'aia dove si ballava era piena di

gente da non starci. Tonio voleva svergognare sua moglie

e perciò si era messo d'accordo con quelli della

festa. Comandò un ballo; ballarono. Quando furono al

centro dell'aia lui svelto le tirò via la mantellina e lei

restò tutta nuda con addosso soltanto le sue acce, una

davanti e una dietro.

Allora tutti si misero a schernirla, uomini e donne, e gridavano:

«Viva, viva la Maria

con due acce per la via!».

____________________________________________________________

(1) FIABE TOSCANE, Mondadori, Milano, 2002 FIABE ROMAGNOLE E EMILIANE, Mondadori, Milano 2000

(2) FIABE TOSCANE, Mondadori, Milano, 2002, p. VII

(3) FIABE ROMAGNOLE E EMILIANE, Mondadori, Milano, 2000, pp. 63 - 65


DAL SITO http://www.regione.emilia-romagna.it/modena-est/com_mont/natura/belved/belstori.htm

Percorso Belvedere: un po‘ di storia

" Narra una leggenda che in un piccolo villaggio dell'appennino, sul confine tra le provincie di Modena e Bologna, viveva una giovane donna di nome Olivia, incinta di otto mesi, che venne rapita da due vagabondi per conto di un signore malvagio, forse il demonio in persona. Appena gli fu portata la donna, egli l'agguantò ed aprendo due ali, come fosse.un pipistrello, s'alzò in volo sopra il monte. Per difendersi la poveretta invocò la Madonna e gli mostrò un'immagine della Vergine che teneva al collo. Satana dalla rabbia lasciò cadere la preda che precipitò al suolo vicino ad una rosa a braccia aperte."

Storia o leggenda?... Non si sa, ma dove cadde Olivia c'è ancora per terra il segno di una croce dentro il quale l'erba non cresce neppure in primavera.
Arrivare sul Monte Belvedere in una ventosa giornata di fine Aprile, mentre il cielo si copre di nubi dense e, tra i ruderi dell'antico castello, si sentono strani fruscii, sembra davvero di rivivere ai tempi della leggenda.

Un ripetitore televisivo, costruito a pochi metri dalla vetta, ci riporta alla realtà ed abbiamo appena il tempo di ammirare il vasto panorama, che già le prime gocce di pioggia ci consigliano di scendere velocemente verso Castelluccio di Moscheda.

In meno di un'ora siamo al riparo dentro l'unico bar del paesino e, mentre ci gustiamo una fumante crescentina, ripercorriamo con la memoria le tappe del nostro trekking sul "Percorso Belvedere".

Questo percorso, che si snoda a cavallo delle provincie di Modena e Bologna, lungo la dorsale appenninica che divide le valli del Panaro e del Reno, è nato con l'intenzione di collegare la Pianura Padana al Sentiero Italia che corre sul crinale Tosco-Emiliano.

E' un itinerario prevalentemente collinare, che dopo aver attraversato un territorio particolarmente ricco di tesori sia naturali che artistici, raggiunge la quota massima e si conclude sul Monte Belvedere (1140 m).

Il percorso Belvedere è lungo circa 48 Km ed è facilmente percorribile a piedi, anche da bambini e persone anziane, a cavallo ed in mountain bike. L'intero tragitto può essere suddiviso in 5 tappe percorribili a piedi camminando tra le due ore e mezzo e le quattro ore e mezzo ed ogni tappa può diventare l'occasione per una breve escursione domenicale.

Il percorso Belvedere è nato ufficialmente nel 1991 in seguito ad un progetto della Comunità Montana Appennino Modena Est finalizzato al recupero ed alla riattivazione di antiche strade e sentieri ormai in disuso, per incentivare il cosiddetto Turismo Ambientale e dare nuovo impulso all'economia locale, favorendo quelle attività che fanno parte della tradizione e che oggi vengono ricercate dai turisti (produzioni agricole tipiche, piccolo artigianato, gastronomia).

Il progetto, che ha ottenuto anche un contributo della CEE, nell'ambito dei Programmi Integrati Mediterranei, individua idealmente e nella realtà un itinerario che collega tra loro le numerose bellezze naturali, le testimonianze storico-architettoniche e i luoghi della gastronomia tipica di un territorio dove le attività economiche si sono sviluppate rispettando il più possibile le risorse ambientali.

Lo dimostra il fatto che l'agricoltura è ancora oggi l'attività prevalente nonostante le numerose difficoltà in cui si dibatte il settore.

Qui si fanno produzioni di grande qualità, basta citarne due: il Parmigiano Reggiano e le ciliegie tipiche di Vignola che assieme ad altri prodotti "minori" come le patate di Montese ed i marroni di Zocca, determinano il prestigio della zona. Particolarmente belli sono i ciliegi nel periodo della fioritura ed in autunno, quando si colorano di rosso vivo, ed i castagni che qua e là ritroviamo ancora coltivati in impianti regolari come si usava un tempo quando erano considerati l'albero del pane per i montanari.

Suggestivi sono anche i calanchi che segnano le prime colline argillose, ricoperti di ginestre, ginepri e biancospini ed i campi di patate, sugli altipiani arenacei, che spiccano anche da lontano con i loro solchi perfettamente ordinati.


SULL'ORIGINE DI SAN PELLEGRINO AL CASSERO:LA LEGGENDA

Come sappiamo San Pellegrino al Cassero venne fondata durante il XIV secolo come postazione militare pistoiese a difesa della Via Franigena della Sambuca, sappiamo anche che il nome "San Pellegrino" è ancora più recente (vedi AA.VV, "San Pellegrino al Cassero", Pistoia, 1997, pp. 15 ss.). Eppure la devozione locale al Santo ha fatto si che si sviluppasse una leggenda che vuole leremita scozzese (invero era "scoto" e, quindi, un abitante dell'odierna Irlanda) passare per i nostri monti. A titolo di curiosità, e per ricordare comunque una nostra tradizione che è parte anche della npstra storia, riportiamo un resoconto di questa pia leggenda:

"Vari sono i paesi che portano il nome di San Pellegrino, ma questo è stato distinto dagli altri coilla parola Cassero, perché secondo la leggenda, il Santo, nel suo viaggio in cerca di un luogo romito ove fare penitenza, scelse il bosco nominato Casseto. Per tre giorni vi dimorò, ma all'alba del quarto, indicatore un gallo, egli capì che non lungi doveva esserci qualche abitazione e l'anima sua, desiderosa di penitente solitudine, s'avventurò nuovamente per una nuova e selvaggia dimora.

Ma chi era questo Pellegrino? Un nobile! La leggenda vuole che San Pellegrino fosse l'unico figlio di Romano re di Scozia. A Quindici anni perse il padre ed a lui spettava la corona, ma desideroso non di una corona mortale, bensì di un'altra che lo facesse ascendere al cielo per l'amore di Dio, lasciò ad altri le sue ricchiezze. Vestitosi da penitente Pellegrino s'incamminò verso il sepolcro di Cristo per fare penitenza in quel luogo santo. Molte furono le disavventure e le sofferenze che egli dovè nel lungo cammino, ma l'anima sua, ardentemente innamorata di Cristo, sopportò e vinse ogni ostacolo.

Non stanco d'incontrare difficoltà, si diresse a Roma per visitare anche i luoghi santi. Con ardore pregò ed un angelo gli apparve e gli suggerì di continuare ad essere penitente in una selva ove avrebbe dovuto finire i suoi giorni terreni. Fissò dimora nella selva del Cassero, ma accortosi che il luogo non era deserto come egli desiderava, mosse i suoi passi verso nuova e più rigida terra e si fermò a San Pellegrino delle Alpi, dove sorge un santuario in suo onore, meta di pellegrinaggi annuali nel mese di Agosto"

(Resoconto del 1929 delle maestre Zaira Gherardini e Elia Scatizzi di San Pellegrino, pubblicato in AA.VV, "San Pellegrino al Cassero, Pistoia, 1997, pp. 37 - 38)



L'ACQUA DI PRACCHIA

Pracchia: terra di acqua, l'acqua del Reno e l'acqua delle sue sorgenti: la Sorgente Orticaia e la Sorgente La Fredda.

Delle sue acque sorgive Pracchia si è sempre vantata, e a ragione! Le acque sorgive di Pracchia hanno sempre posseduto qualità organolettiche e virtù terapeutiche superiori, tanto che sono tutt'oggi apprezzate contro la calcolosi renale.

E delle virtù terapeutiche delle acque sorgive dell'Orticaia, ad esempio, si è avuto il primo riconoscimento scientifico nel 1882, anche se solo a partire dal 1888 è iniziato il suo sfruttamento su scala proto - industriale.

Alla sorgente Orticaia e alla "Acqua Silva" che imbottiglia questa acqua è legata anche Porretta, in quanto la famiglia Testa (già proprietaria delle Terme di Porretta) ne fu proprietaria dal 1930 al 1946.

Come nota di cronaca ricordiamo che presso l'attuale stabilimento dell'Acqua Silva si giunsero ad occupare, nei periodi di massima richiesta, fino a 30 addetti

Per saperne di più clicca su http://www.acquasilva.com/


LE GHIACCIAIE E PRACCHIA

Nell’economia e nella storia di Pracchia e dintorni hanno avuto una grande importanza anche le ghiacciaie.

Le più antiche ghiacciaie sorsero lungo il Reno intorno a Pontepetri e le Piastre. Attorno al 1863, con l’apertura della Ferrovia Porrettana, tuttavia esse ebbero un vero e proprio picco. La ferrovia garantiva infatti maggiore capillarità e maggiore velocità con, conseguente, minore perdita di prodotto. Alcuni produttori, come il Vivarelli e il Giannini, arrivarono perfino a disporre di propri carri merci coibentati per il trasporto della produzione che stanziavano sui binari di ricovero della stazione ferroviaria di Pracchia.

Il periodo più aureo per questo genere di produzione andò dal 1860 fino al 1897 dove si toccarono le 17000 tonnellate. La produzione tuttavia crollò con il 1936 quando venne approvata una rigida normativa intesa ad assicurare l’igiene e la salubrità del prodotto.

Nel frattempo nacque una fabbrica per la produzione di ghiaccio artificiale in località Setteponti, che all’apice della sua attività poteva permettersi di caricare periodicamente, nella stazione di Pracchai, ben 50 carri da 12 tonnellate ciascuno.

L’attività di Setteponti, di proprietà di un Vivarelli, continuò fino alla seconda guerra mondiale.


LE MUMMIE

LE MASCHERE DI PIETRA IN ALTO RENO

Dalla Chiesa di Spedaletto alle numerose borgate del Comune di Sambuca, da Castel di Casio a Granaglione, fino a Lizzano in Belvedere (famose sono quelle di Poggiolforato), diversi edifici ospitano delle figure antropomorfe in pietra. Queste figure vengano chiamate a Lizzano in Belvedere "Mummie".

Di fatto la popolazione locale ha perduto la consapevolezza del significato simbolico delle maschere, ma si può presumere che avessero una funzione apotropaica e cioè servissero a tenere lontani persone, animali o spiriti che potessero avere un qualunque effetto negativo sulle cose. C'è tuttavia chi lega l'uso delle mummie alle antiche tradizioni celtiche o germaniche (l'Alto Reno ebbe consistenti insediamenti longobardi, mentre più voci sostengono la presenza di tribù dei Galli Bovi nel lizzanese) fondate sul rituale macabro di esporre all'ingresso delle capanne le teste dei nemici uccisi.


LE "MUMMIE" PISTOIESI

Anche per Pistoia si può attestare, negli edifici sacri, un numero rilevante di "mummie", ecco un breve sommario , incompleto, elenco:

PISTOIA

Pulpito della Chiesa di San Bartolomeo in Pantano

(clicca anche su http://groups.msn.com/pulpitidipistoia/curiositsulpulpitodisanbartolomero.msnw)

Facciata di Sant'Andrea

DINTORNI DI PISTOIA

Mensole della Pieve di San Pancrazio di Cireglio

Mensole della Pieve di Gavinana

Coronamento del lato sinistro di Santa Maria di Montepiano (Prov. Prato)

Fonte battesrimale di San Michele in Groppoli

Coronamento della Chiesa di San Michele di Serravalle Pistoiese.


LE NOSTRE CASE

"Oggi ci si chiede cosa prevedere concretamente per la sopravvivenza di paesi nati da sistemi e condizioni di vita tanto diversi dai nostri. Sul tipo di sopravvivenza occorre intendersi bene perché, a lungo andare, solo l'invenzione di ragioni di essere compatibili con quelle originarie, anche se diverse, potrà reclamare a buon diritto l'uso del paese e delle sue case, strade, dimensioni e riferimenti ambientali. Per il momento è rimedio illusorio alla definitiva decadenza quello di manomettere edifici e contesti con la scusa dell'adeguamento alla vita attuale, perché opera in superficie ma distrugge progressivamente i connotati fisici e storici che sono l'unico valore sicuramente duraturo di questo tipo di beni. La considerazione vale anche per l'aspetto economico. Piuttosto dunque si indirzzi verso interventi di manutenzione e di adeguamento di servizi, cosa perfettamente compatibile con il resto, purché gli operatori siano competenti, senza attendersi da questo impossibili risurrezioni ma solo la saggia trasmissione a tempi, speriamo, più illuminati" (Nueter Ricerche, n. 11, p. 375)


LE STELLE VAGANTI

Una tradizione popolare coltissima

Parlare di popolare e colto al tempo stesso può sembrare una contraddizione, ma tale contradditorietà è spesso solo apparente.

Nel pregevole lavoro di Cecchelli sulla dimensione magica dell'Alto Reno (M. Cecchelli, Una castagna sotto il guanciale, Gaggio Montano 2001) si parla della "danza delle stelle" attraverso la testimonianza di Chiara Gualandi:

"Dicono ... che alzarsi avanti il giorno la notte dell'anno nuovo si vedono le stelle ballare" (p. 54).

Il Cecchelli rimanda questa leggenda locale all'antica assimilazione fra Angeli e stelle, discesa dalle speculazioni di Origene e dello Pseudo Dionigi Aeropagita, attraverso le raffigurazione artistiche (ibid., pp. 54 - 55).

Alle osservazioni del Cecchelli desideriamo aggiungere un nostro personale contributo:

Tra l'XI e il XV secolo era invalso nel contado di Bologna (ma tale tradizione era presente anche nei vicini contadi di Pistoia e Modena) come inizio dell'anno civile il giorno della natività di Cristo (ibid., p. 49).

Come è noto alla nascita di Gesù si accompagna il fenomeno della "stella cometa" (Matteo 2,2, Matteo 2,7, Matteo 2, 9-10), secondo San Tommaso d'Aquino "l'Angelo che apparve ai pastori in forma umana, apparve ai Magi in forma di stella" (S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, Pars III, q. 36, a. 7). E' sempre Tommaso d'Aquino che ci riferisce che la stella che apparve ai Magi era una stella miracolosa "perché seguì una via nuova, ebbe una apparizione improvvisa e risplendeva di notte e anche di giorno" (G. DAL SASSO - R.COGGI, Compendio della Somma Teologica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1996, p. 372).

Appare dunque evidente che la data del Capodanno per la "danza delle stelle" è legata a questa lezione tomistica, probabilmente appresa attraverso la predicazione o le manifestazioni artistiche: nel celebre pulpito di Giovanni Pisano custodito nella Chiesa di Sant'Andrea a Pistoia (scena della natività) la stella cometa è rappresentata attraverso un volto umano da cui si irradiano fasci di luce.


UNA LEGGENDA SUI BORDIGONI

Nel Dizionario Toponomastico del Comune di Granaglione (p. 95) si parla di cun certo Vidio di Case Boni che trovò tra le rovine di una casa una pentola di marenghi d'oro, marenghi tuttavia che non potè portarsi a casa perché, appena viste, si trasformarono in bordigoni.


MADONNE EMILIANE NELL'ALTO RENO PISTOIESE E PRATESE

Nel 1993 la Provincia di Pistoia, con straordinaria lungimiranza, promosse una campagna di rilevamento delle edicole sacre presenti nel territorio del Comune di Sambuca Pistoiese. I risultati della ricerca sul campo furono sorprendenti: a parte alcune rappresentazioni di origine toscana (Madonna della Seggiola, Madonna di Provenzano, Madonna del Buonconsiglio) la maggior parte erano attribuibili o ad area emiliano - romagnola o a modelli generici ovunque presenti in Italia: in particolare si registrava la presenza di 19 Madonne di San Luca su 85 complessivamente registrate nel territorio comunale.

Appena oltre il territorio Sambucano (a Molino di Fossato, in provincia di Prato) si trova addirittura una Madonna del Piratello, venerata in un Santuario vicino a Imola.

Come spiegare la presenza di così tante immaginisacre di origine bolognese, considerando che i territori Sambucani e la frazione di Fossato non hanno mai dipeso né da Bologna, né (tantomeno) dalle Autorità secolari pontificie?

Una prima spiegazione può essere offerta dal fatto che fino al 1784 Fossato e l'intero territorio comunale della Sambuca dipesero dalla giurisdizione religiosa della Diocesi di Bologna. Ma questa spiegazione da sola non basta. Una seconda spiegazione è data dal fatto che i montanari pistoiesi e di Fossato erano soliti recarsi al mercato di Porretta, ed è probabile che a Porretta si trovassero ceramiche bolognesi o faentine di indiscussa qualità. Data la qualità delle immagini i montanari pistoiesi e pratesi (che forse non avevano neppure tante scelte) prendevano queste immagini bolognesi senza preoccuparsi tanto della loro origine; in fondo la Madonna non ha colori e proteggerà un buon contadino toscano anche se Lei è "bolognese".


L'ULTIMO DEI "MANDGAI"

Un mestiere scomparso

Estratto da "La Musola", n. 12 (luglio - dicembre 1972)

I Mandgai sono i boscaioli del legno bianco. "Il lavoro del legno bianco è un'arte: richiede perizia e abilità di mano e di occhio. Un arte che s'impara da ragazzi nel bosco sotto la guida paterna. Un'arte ormai scomparsa ... Giuseppe Bernardini, l'ultimo dei Mandgai, andò in macchia, in Basilicata, con suo padre quando non aveva ancora dieci anni, nel 1907 ... In macchia, anno dopo anno, imparò il mestiere. Imparò a scegliere le fagge ancora in piedi, sgorbiando la scorza con un colpo d'accetta dalla parte dell'"occhio"... Imparò a riconoscere il legno "crudo", adatto per ogni lavoro, dal legno "dolce", adatto solo per stacci e cascine di formaggio. Imparò a fare manichi da vanga, cannelle per la sfoglia molto ricercate dalle massaie ..."

Un mestiere e un mondo che non c'è più


MEDICINA POPOLARE

Sappiamo che a Capugnano (e in altre zone dell'Alto Reno) c'era la tradizione di curare le persone anemiche facendole bere "acqua ferrosa", ovvero acqua nella quale era lasciato "macerare" del ferro; una analoga "medicina" era utilizzata nella montagna pistoiese per curare il raffreddore, solo che la materia liquida era del vino bollente (DINA MUCCI MAGRINI, "Quando i necci erano il pane", Pistoia, 2002, p. 25).

Fino a cinquant'anni fa, accanto (ovvero in luogo) della medicina ufficiale, vi era una medicina popolare fatta di espedienti, di briciole di tabacco e stracci, di piante, di aromi, aceto e "acqua panata". Ma questa "pratica medica" era soprattutto una "pratica magica" fondata sulla capacità di "segnare", ovvero di allontanare certe malattie coi gesti di una mano o un oggetto benedetto, da parte di alcune persone iniziate dirante la notte di Natale (cfr. M. CECCHELLI, "Una castagna sotto il guanciale", Gaggio Montano, 2001, pp. 33 - 34).

Altrettanto importante risultava il rituale delle parole; formule infantili e cantilenate, ma a cui si riconosceva il potere taumaturgico ("Medgina, medgìna/mèrda ed gallina,/mèrda ed cucù:/la bùa an gn'è piò!").

La Medicina popolare, dunque manifestava in sé i caratteri di un mondo alieno al cristianesimo, nel quale il dominio umano e quello ultaterreno vivevano di una continua osmosi. Il mondo cristiano si era insinuato, aveva invaso questo mondo, ma senza del tutto omologarlo e ordinarlo.

La medicina popolare, insieme alle tradizioni orali, è così stata l'ultimo baluardo di una concezione della vita e di un ordine metafisico che non coincidono con quello cristiano, intrensicamente alternativo e contrapposto, fondato principalmente su un ultraterreno immanenente e non trascendente.

Ma approfondire ulteriormente l'argomento non ci pertiene (ci farebbe uscire dall'oggetto di queste pagine web che è l'Alto Reno Toscano), e ci limitiamo quindi a rimandarvi a verificare voi stessi le numerose similitudini fra la tradizione medica popolare in Alto Reno e nell'Alto Appennino Pistoiese (San Marcello, Cutigliano, Cereglio, ma anche la Collina) e Pratese (Cantagallo, Vernio).


LE OPERE IN ALTO RENO

In passato accanto alle Parrocchie la vita religiosa in Alto Reno era contraddistinta dalla "Opere", ovvero da degli istituti giuridici autonomi rispetto all'Amministrazione Parrocchiale, governata da un Consiglio e da un "Operaio". Come rileva il Zagnoni (AA.VV.,Torri e il Comprensorio delle Limestre, Pistoia, 1995, p.43) questo istituto, diffusissimo in Toscana, era presente nella Diocesi di Bologna solo nelle parrochie in territorio pistoiese "ed in quelle che erano state toscane prima del secolo XIII" (clicca anche su ). Segno ulteriore che fra Alto Reno e Toscana i rapporti sono sempre stati solidissimi.


organi

Si riporta con alcuni interventi di nostra mano l'incipit dell'articolo "L'organo di Treppio" pubblicato su Nueter n. 2 del dicembre 1981 (pp.69 - 72)

La città di Pistoia e tutto il suo territorio montano, come la vicina montagna bolognese, conservano un patrimonio di inestimabile valore: quello organaro.

Lasciato spesso nella dimenticanza, è stato negli ultimi tempi giustamente riconsiderato e si sta cercando di fare ogni sforzo per conservare molti di questi pregevoli e particolari strumenti musicali che tutto il mondo ci invidia e per i quali la nostra terra è andata meritatamente famosa in passato.

Purtroppo alcuni di questi organi sono andati ormai perduti completamente, alcuni hanno subito danni quasi irreparabili, e solo altri rimangono fortunatamente ben conservati o, in discreto stato, richiedendo comunque interventi per essere riportati all'antico splendore e alla primitiva funzionalità.

tra questi ultimi oltre all'organo di Porretta si può collocare quello di Treppio (di Pietro Agati).

... Chi ha avuto la fortuna di ascoltare l'organo di Treppio alle prese con Giuseppe Gherardeschi e la sua marcia con "uccelli" o i compositori primo barocchi (Sweenlick) non può che rimpiangere la perdita di parte (una parte consistente) del nostro patrimonio d'organi.


GLI OSPIZI DELL'ALTO RENO E LA TOSCANA

Abbiamo già visto l'importanza degli ospizi lungo l'itinerario del diverticolo sambucano della Via Francigena, vale la qui la pena sottolineare come almeno tutti gli ospizi più importanti dell'Alto Reno dipendessero da Monasteri toscani:

1) Ospizio dei Santi Bartolomeo e Antonino di Spedaletto: dipendente dalla Cattedrale di Pistoia

2) Ospizio di S.Ilario di Badi: dipendente prima dal Monastero di San Salavatore dell'Agna e poi da San Salvatore di Fontana Taona

3) Ospizio di San Giovanni Battista di Casio: dipendente dalla Cattedrale di Pistoia attraverso San Bartolomeo di Spedaletto

4) Ospizio di San Michele Arcangelo di Bombiana: dipendente dal Monastero di Fontana Taona


POO 'ACIO E POO SANT'ANTONIO

E' il titolo di un racconto popolare pistoiese raccolto nel 1901 da Rodolfo Nerucci (R. NERUCCI, "Racconti popolari pistoiesi", Edizioni Can Bianco - Niccolai, Pistoia, 1984, pp. 103 - 104).

In questo racconto si narra di un pittore al quale un prete chiese che "gli dipingess' un Zant'Antonio". Il pittore si mise al lavoro, ma si accorse ben presto che il prete ("siccome era 'n po' avaro") risparmiava nel rifornirlo di cibo. Così alla fine, per ripagarlo della stessa moneta, dipinse un quadro enorme con un Sant'Antonio microscopico . Alle rimostranze del prete il pittore così rispose:

"Che vòle! Poo 'acio e poo Sant'Antonio".

A Bologna esiste un proverbio analogo alla sentenza del pittore del racconto pistoiese:

"Pooc spaisa, pooc Sant Antoni" (cfr. "Dizionario Bolognese", Vallardi, Milano, 2000, Appendice).

Che ad analoga sentenza corrisponda una analoga storia?

Ma soprattutto, ci domandiamo se esiste in Alto Reno un proverbio simile e una storia simile. Se avete qualche idea fatecelo sapere!

nel merito del problema abbiamo ricevuto una risposta da Daniele Vitali (coautore del "Dizionario Bolognese" pubblicato da Vallardi) che di seguito riportiamo:

"/ credo di sì, fatte salve altre versioni.
Nasce dal fatto che in molte località di campagna, nel giorno di S.
Antonio, si teneva una fiera di bancarelle simile alla nostra di Santa
Lucia o a quella della Madonna di San Luca in via Altabella. In più c'erano
saltimbanchi, cantastorie, baracconi, eccetera. Tutto ciò appoggiato dalla
chiesa che benediceva gli animali nel giorno del loro protettore. E gli
animali, in campagna, erano ricchezza.
Era un'occasione molto attesa dal popolino che vi si recava per infime
spese voluttuarie, quali un stufilén, un balunzén, un sugabacàtt, zóccher
filè, crucànt, e soprattutto per divertirsi, ballare al suono di un
organetto e magari iniziare i primi approcci amorosi.
C'era chi risparmiava tutto l'anno qualche misero soldino per ben figurare
a quella sagra e divertirsi a dovere.
Ma chi non risparmiava o chi non ne aveva da spendere faceva "poco
Sant'Antonio"
cioè "poca festa, poco divertimento".
Credo però che il proverbio non sia soltanto nostro, ma sia più diffuso in
altre zone del nord Italia e comunque non dovrebbe essere di provenienza
cittadina ma campagnola "


RICORDI DI VITA

E tra le cose che scompariranno ci sarà anche la cultura di paese, le piccole storie ricordate in certi numeri di Nueter (vedi la "Segheria Perpetua" al numero I dell'agosto 1975) e, soprattutto, negli articoli di Graziano (Mario) Guiducci pubblicati tra il 1979 e il 1998 nei periodici locali "Bar Diavolo" e "il Brocciolo".

A titolo di esempio uno stralcio da "Pescatori di Frodo" (il Brocciolo, n. 3, marzo 1998, p.3):

"...A volte, in primavera, si andava di notte a pescare ranocchi che si vendevano molto bene, anche trecento lire al chilo, ed erano una frittura molto apprezzata. Una volta il meccanico di biciclette Mazzini mi fornì da collaudare un attrezzo di sua invenzione dela quale andava molto fiero e che consisteva in un'asta di più di un metro nella quale scorreva un fil di ferro col comando ad una estremità e una reticella a scatto all'altra. Lo strumento funzionava a meraviglia, anche se sciupava un po' i ranocchi. Mi fece guadagnare parecchi soldi e Mazzini pensava di brevettarlo.

A proposito di ranocchi, un anno Costante, il padre di Ballotta di Via Falcone, pensò bene di riempire vasche, tinozze e bidoni di girini raccolti sul Rio Maggiore, sostenenso di volere diventare un grosso allevatore di ranocchi, ma al momento della muta si accorse che diventavano tutti rospi, così dovette cacciare via tutto rinunciando a un avvenire di imprenditore, e continuando a lavorare al Castanea".

Ma anche queste storie e questo mondo è destinato a muorire.


LA RIEVOCAZIONE DI TORRI

Da "Microstoria" (anno I, n. 4, ottobre 1999, p. 23)

"A Torri, un vivace paesino della montagna pistoiese, si svolge in agosto la rieocazione storica dell'insediamento del podestà inviato da Pistoia nel 1319... Circa settecento anni fa, precisamente il 22 settembre 1319, il Comune di Pistoia prese possesso dei castelli di Torri, Monticelli, Treppio e Fossato, riscattandoli dai diritti feudali della famiglia comitale degli Alberti. Non fu quindi un fatto cruento, ma un vero e proprio acquisto per la consistente seomma di cinquecento fiorini d'oro. D'altronde Pistoia, frenata a oriente e a occidente da più potenti vicini, si espandeva naturalmente verso i territori montani. Quel 22 settembre, così come nella rievocazione attuale, la delegazione del Comune di Pistoia si incontrò con i Conti Alberti e il loro seguito nella piazza detta "Carnevale". Dopo i saluti di rito, il capo della delegazione pistoiese, ser Francesco, afermò di essere pronto a consegnare al conte Guglielmo la somma prestabilita. Si passò quindi a una fase molto delicata della cerimonia, quella in cui il conte prestava il giuramento sul vangelo, rinunciando, a nome di tutta la sua famiglia, a ogni diritto sulle terre in questione, senza porre alcuna condizione. Eccoci quindi alla consegna "fisica" della borsa con i soldi, dopo la quale gli alfieri portabandiera di Torri, Monticelli, Treppio e Fossato, che erano al seguito dei conti Alberti, passano dalla parte della delegazione pistoiese. Ma a sancire il passaggio di proprietà è necessario passare ora alla presa di possesso materiale del territorio, da compiersi con precisi gesti ritualizzati di fore valenza simbolica. Sono momenti molto suggestivi, oggi forse ancor più che allora, quelli in cui ser francesco fa fermare il corteo per raccogliere una manciata d'erba che fa poi lentamente cadere. E' questa la prima fase del rito, relativa alla presa di possesso dei beni e dei frutti della terra. Il corteo riparte allora verso il centro, fino in prossimità di un albero, dal quale ser Francesco fa fermare il corteo per spezzare un ramoscello per farlo poi cadere a terra. Siamo alla seconda fase della cerimonia con la quale il nuovo proprietario afferma di prendere possesso anche dei beni che sono al di sopra della terra e che cadono su di essa. Quando il corteo è ormai alla fine del percorso un vassallo del conte Guglielmo consegna finalmente a ser Francesco le chiavi del castello, permettendo al capo della delegazione pistoiese di insediarvi due guardie sulla torre. Ora che il Comune di Pistoia ha ormai riscattato a tutti gli effetti i nuovi territori, è necessario nominare una autorità che lo rappresenti. Si passa quindi alla cerimonia di investitura del nuovo podestà, ser Bartolomeo de' Tebertelli, il quale procede con la lettura della formula del giuramento, affiancato dal suo notaio ser Monte Bindi. Alla conclusione viene consegnato a ser Bartolomeo tutto ciò di cui avrà bisogno nell'esercizio delle sue funzioni: quattro palvesi nuovi (grossi scudi rettangolari), quattro balestrieri e infine le chiavi del castello. Dopo gli applausi e le ovazioni lo stesso podestà invita il popolo a far festa con musica, canti, balli e banchetti".

NOTA: Il possesso di cui si parla nell'articolo era in realtà solo simbolico, un atto con il quale i Conti Alberti lasciavano cadere le loro pretesi su Torri, Fossato, Monticelli e Treppio che dal 1219 appartenevano a pieno titolo al "Districtus" pistoiese.


ROSA CELTICA

È detto anche "fiore a sei punte" o "sole delle Alpi" (e in questa accezione è usato come simbolo della "Padania" leghista). Simbolo antichissimo, già testimoniato (insieme alla svastica e ai motivi spiraliformi) nell’arte etrusca, esso è ben attestato nella nostra montagna: dagli elementi decorativi murali nella Valle del Randaragna (Nueter, n. 3 (1976), pp. 36 – 37) agli stampi per le crescentine, agli architravi di Torri (B.Homes, "Alta Limentra Orientale", Porretta Terme – Pistoia, 1996, p. 26).
Questo simbolo non pare attestato, se non per l’epoca etrusca, a Bologna mentre risulta relativamente ben diffuso a Pistoia (portale della Chiesa di San Pier Maggiore, facciata della Chiesa di San Giovanni Fuoricivitas (insieme ad altri simbologie), interno della Chiesa di Sant’Andrea) e dintorni (vedi il leggio dell’ambone di Santa Maria di Buggiano).
Che all’origine della nostra tradizione delle rose celtiche ci sia una cultura comune con Pistoia e, dunque, fuori discussione, anche se resta da capirne l’origine: cultura autoctona oppure grafismo introdotto dai maestri comacini attivi fra la Toscana e l’appennino bolognese?


LA ROSA AUSONICA

La rosa celtica è davvero un simbolo settentrionale?

Che la rosa celtica sia davvero celtica è, francamente, poco credibile. ALcuni elementi possono confermarlo:

1) la rosa celtica compare in una stele etrusca custodita a Bologna (la Musola, n. 33, 1983, p. 78)

2) la rosa celtica compare in una antichissima stele (VII secolo avanti cristo) custodita a Manfredonia (La Musola, n. 33, 1983, p. 78);

3)la rosa celtica compare in una stele araba antica custidita al Museo del Bardo a Tunisi (AA.VV., "Islam", Konemann, Colonia 2001, p. 11).

Forse la rosa celtica potrebbe essere chiamata, con altrettanta autorità, come "rosa ausonica"


LA SANGUISUGA

Una leggenda infondata

Nelle nostre montagne è forte la tradizione che vuole che la presenza di sanguisughe è segno che l'acqua è purissima (vedi "La Musola", n. 39, 1986, p. 4). Purtroppo questa è solo una leggenda: le sanguisughe possono vivere anche in acque degradate e compromesse, dove è impossibile la sopravvivenza delle altre specie animali. Questa leggenda rimanda alla mente a un'altra antica leggenda: quella della salamandra che vive nel fuoco. Come quest'ultima ha un fondo di verità, ma solo un fondo ...

La sanguisuga, infatti, è un colonizzatore estremo, in grado di sopravvivere sia in ambienti idrici compromessi (la cosiddetta classe "IV") che in piccoli (e gelidi) rivoli di montagna. Le capacità di sopravvivenza della sanguisuga, quindi, sono tali da non poterci in alcun modo aiutare a classificare la purezza di una certa acqua.

Sarebbe interessante, tuttavia, sapere se questa leggenda (perché di leggenda si tratta) della sanguisuga che vive solo nell'acqua purissima ha dato luogo a una simbologia complessa come quella della salamandra (1). In effetti gli estremi ci sarebbero tutti: la sanguisuga è legata al sangue e - attraverso questa tradizione - all'acqua, ovvero alle essenze quasi spirituali che rappresentano la vita stessa (notissima la simbologia in proposito). Chi ha notizie inmerito c'informi, in fondo le premesse ci sono tutte:

"[la sanguisuga era] un segno ben augurale, una fausta interpretazione di un buon auspicio"

(1) "...L'inizio di questo processo di trasformazione dolorosa attraverso la combustione sopra descritta, è sempre stato rappresentato simbolicamente sin dai tempi più antichi, con la figura di una Salamandra che brucia nel fuoco senza morirne, o con la figura della Fenice che risorge sempre dalle sue ceneri. Persino la posizione spaziale della Salamandra che arde nel fuoco come è rappresentata nell'iconografia alchemica, è simbolica di come va attuato il processo, cioè contiene le istruzioni che bisogna seguire per porre in atto questo processo di trasformazione" (dal sito "esoteria.org")


SPIRALI

Altro segno misterioso attestato nelle nostre vallate (es: Valle del Randaragna (Nueter, n. 3 (1976), pp. 36 - 37)) è la spirale; motivo decorativo di origine antropica risalente all'età del rame e ben diffuso in diversi luoghi d'Europa: dall'Egeo all'Irlanda. Il motivo risulta ben attestato anche in Toscana, come testimonia anche il ritrovamento di lastre in terracotta scavate nel 1975 sotto la navata sinistra della Cattedrale di Prato. A proposito di questo ritrovamento la rivista pistoiese - fiorentina "Microstoria" ha dedicato un articolo alle pagine 4 e 5 del suo numero 26 (2002), proponendo una tesi a dir poco sorprendente:

i motivi spiraliformi di Prato non sono semplicemente analoghi a quelli irlandesi, ma "in tutto simili" e, quindi, fra loro direttamente legati.

Non è la prima volta che leggiamo di un collegamento fra la lontana Irlanda e questo settore Centro - Settentrionale dell'Appennino ...

Nei numeri 30 (p. 171) e 38 (pp. 116 - 117) de "La Musola" veniva asserita la parentela fra le nostre "Mummie" e le teste appese sulle Chiese irlandesi.

Coincidenze?

Noi lo crediamo, ma non si può negare l'indubbio fascino di un sottile legame che ci potrebbe legare all'antica terra dei Druidi e di San Patrizio e, poi, non dimentichiamoci delle parole che il Principe Amleto rivolge al suo dubbioso compagno:

"Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella tua filosofia" (W. Shakespeare, Amleto, Atto I, Scena V).


STORNELLI

una tradizione toscana

Dal "Vocabolario della lingua italiana" dello Zingarelli (Zanichelli Editore):

"STORNELLO: Canto popolare, spec. dell'Italia centrale, composto di due endecasillabi preceduti da un quinario, nel quale c'è spesso l'invocazione di un fiore".

Di stornelli in Alto Reno se ne cantavano tanti: da Case Calistri (Nueter, n. 1, 1975, pp. 33 - 36) a Monte Acuto (La Musola, n. 30, 1981, p. 202).

L'occasione preferita per cantare stornelli era rappresentata dalle "veglie", una occasione per bere, mangiare e fare conoscenza, ma anche per lanciare sfide: "Io di stornelli ne so tanti ... che ne sa più di me si faccia avanti".

"La derivazione degli stornelli è certamente toscana, anche se variata, avendo ad esempio perso la caratteristica del verso pentasillabo (quinario)" (Nueter, 1 (1975), p. 36).

Ma donde viene questa tradizione?

Secondo "La Musola" (n. 30 (1981), p. 202) la tradizione è stata importata dalla Maremma Toscana, tuttavia la presenza nell'appennino lucchese, pistoiese, fiorentino, pratese di questa tradizione lascia supporre una origine più prossima.

"O fior di pesca / Sei vinto in gentilezza da Maresca / ricca di belle donne e d'acqua fresca"

(stornello di Maresca: San Marcello Pistoiese)

In ogni caso lo stornello, uno degli eventi caratteristici della cultura altorenana, è toscano, a conferma del fatto che senza il contributo della Toscana la nostra cultura sarebbe un'altra cosa e che "noi non saremmo noi".


TRADIZIONI ORALI

La dimensione magica in Alto Reno

La tradizione orale delle campagne italiane fino a cinquant'anni fa era piena di fate, streghe, fantasmi, diavoli spettri: figure strabilianti di una letteratura che si sviluppava intorno al focolare o nella stalla. In questa cornice la presenza della fame, della morte e del buio assumeva l'aspetto del magico e dell'ignoto.

Anche in Alto Reno le tradizioni orali, che recano evidenti tracce delle credenze latine e pagane (le fate ad esempio manifestano una sicura discendenza da ninfe e naiadi), trovarono un terreno fertile.

Per il Comune di Gaggio Montano è stato pubblicato uno studio (molto curato) dell'Associazione "Gente di Gaggio", studio che vi raccomandiamo caldamente di leggere:

MARCO CECCHELLI, Una castagna sotto il guanciale, Gente di Gaggio, Gaggio Montano 2001.

In questa pagina ci limiteremo a riportare tre testimonianze d'Alto Reno.

FATE Una testimonianza raccolta da Bartoletti Beatrice di Porretta Terme (morta nel 1994) parla di fate che sulle rive della Madonna del Ponte lavano i loro abiti e annegano gli incauti che le avvistano.

BALLO ANGELICO Una testimonianza raccolta da Annalisa Cecchini di Madognana parla della presenza a Pavana dei diabolici "balli angelici". Il "ballo angelico" è una leggenda tipicamente pistoiese e toscana.

BORDA Una testimonianza di Francesco Guccini (Pavana) pubblicata nel suo "Cronache epafaniche" parla di questo misterioso esere (una specie di strega) legato in qualche modo all'acqua: "Non sporgerti, che c'è la Borda che ti tira di sotto"

Una quarta testimonianza merita di essere ricordata, ed è il ricordo d'infanzia di Cecchi Luciana (Porretta Terme) secondo la quale di tanto in tanto veniva a Porretta una vecchia che di notte si trasformava in gatto. Questa leggenda, a parte l'ovvio ricollegarsi al mondo delle streghe, discende dall'antico mito degli uomini che si trasformano in animali, mito che trova nella licantropia l'esempio più noto. Già il poeta Virgilio scriveva nelle Bucoliche (VIII, 97):

"His ego saepe lupum fieri et se condere silvis"

Ma molte altre figure e credenze erano presenti in Alto Reno, come la "Signora del neccio" (incarnazione della fame e della morte), il "biribissi" (sorta di demone che portava via i bambini (Nueter, XIV, p.4),etc.

Oggi tutto questo mondo fantastico è morto e costituisce un evento lontano di un mondo quasi dimenticato nello sviluppo economico tumultuoso dell'Italia recente, ed anche in Alto Reno queste tradizioni costituiscono ormai una realtà che pochi ricordano.

Ma è proprio nella sfera del magico che affondano le più antiche testimonianze (preistoriche) di uomini in Alto Reno: i sassi scritti delle Limentre, fra la Sambuca e Cantagallo con antichi segni d'origine sessuale (vagina) e astrali, ed anche con simboli a "phi", a coppelle, a "pera dij cros"(clicca su immagine) solo più tardi accompagnati da segni e simboli cristiani a scopo d'esorcismo (vedi LEONARDO DE MARCHI, I sassi scritti delle Limentre, Nueter 2000)


NOI SIAMO UN POPOLO

Parola di ... Nueter

"Quando siamo partiti l'impostazione era chiara: stimolare la partecipazione di base, la presa di coscienza, da parte della gente, del concetto che ciascun popolo è portatore di una propria cultura"

(Nueter, II, 1975, p.1)


LA PROCESSIONE DEL VENERDI' SANTO A TREPPIO

Il 18 aprile 2003 si svolgerà a Treppio la tradizionale Processione del "Gesù Morto", con modalità e significati analoghi alle sacre rappresentazioni tanto diffuse soprattutto nel meridione di Italia, ma di cui è raro trovare esempio nelle nostre montagne tosco - emiliane.

Il percorso, che è immutabile, si sonda per più di una ora dalla Chiesa di Lavacchio, al Convento, Le Selve, il Castello, la Piazza, Casa Bettini, Docciola e ritorno.

La mattina del venerdì Santo i membri di una Confraternita locale prendono in consegna il simulacro del Cristo esposto nella Chiesa Parrocchiale all'adorazione dei fedeli, prestando per tutto il giorno la guardia in drappelli di quattro "giudei".

Ogni mezz'ora circa i quattro "giudei" si danno il cambio fra loro, alternando le rispettive posizioni attorno al Cristo collocato nel mezzo della navata centrale. Il cambio della Guardia viene fato con movenze e cadenze di tipo militare con l'intera squadra di undici o più "giudei" che accompagna il cambio con ordinate evoluzioni lungo la navata..

E' altresì tradizioni che, la seea i capi guardia dei giudei impediscano per tre volte ai portantini di prendere possesso del corpo del Cristo.

Anche l'ordine della processione è rigido e preordinato. Dieci minuti prima della processione due "silenzieri" percorrono l'itinerario della processione recando stendardi con la scritta "SILENTIUM". La processione si snoda quindi fuori dalla Chiesa (a rullo di tamburo) secondo un preciso ordine:

1) croce di penitenza scortata da due lancieri con lumi;

2) un plotone di "giudei";

3) le compagnie religiose;

4) un gruppo di bambini e bambine vestiti di bianco (chiamati "angeli custodi") e recanti i simboli della passione di Cristo;

5) un plotone di lancieri e torcieri;

6) il clero con i simulacri della Vergine e del Cristo;

7) altri personaggi (Maria Maddalena, Maria di Cleofa, Giuda, etc.);

8) cori che cantano lo Stabat Mater e il Miserere

9) seguito del popolo

Lungo la processione, in testa ai vari gruppi, mrciano i portatori con gli stendardi recanti frasi tratte dai Vangeli sulla Passione.

Per chi vuole saperne di più legga "Nueter", 1980, n. 2 p. 42 ss.


VIVA I CROCHIONI!

E chi sono questi crochioni? A Pavana la parola, con forte contenuto dispregiativo, indica i Sambuchesi con inflessione più spiccatamente toscana. Ebbene noi guardiamo con spregiudicato favore i crochioni, specialmente i crochioni per fede e per convinzione. I crochioni, in fondo, sono l'ultima testimonianza di una identità toscana che si vuole cancellare come una fastidiosa escrescenza. Noi condividiamo coi crochioni questo peccato originale: ricordare che nel nostro orizzonte storico, culturale, politico ed amministrativo non c'è solo Bologna, ma anche Pistoia. Spiacerà ad alcuni sentirsi ricordare che la gente di Pracchia o di Spedaletto è più vicina (e più simile) a noi di chi abita a Medicina o a Sant'Agata Bolognese, ma è la verità! Per quanto ci riguarda, infatti, non c'è una idea astratta di Emilia (o di Toscana), ma solo questa terra e la sua gente.

E per coloro che pensano a una "grande Bologna" vogliamo solo ricordare: 1) che vi è un Alto Reno che è, e sarà, sempre TOSCANO; 2) che noi altorenani di "emilia" non siamo in fondo "bolognesi", ma metechi apolidi di una terra di confine. W I CROCHIONI DUNQUE!!


SULL'ORIGINE PISTOIESE DEL TERMINE "CROCHIONI"

Edgardo Ferrari a pagina 18 del suo opuscolo sulle "Tracce di isoglosse e sostrato nei dialetti pavanese e sambucano" sostiene la non toscanità del vocabolo "crochione".
Guccini, al contrario, sostiene che il termine "crochione" deriva dal vocabolo pistoiese "crocchia" ("Dizionario del dialetto di Pavana", p. 132).
A conferma di quanto sostenuto da Guccini il "Vocabolario Pistoiese" riporta la voce "crocchia" col significato di "testa grossa" (p. 61).
In bolognese non esiste un equivalente di "crocchia" o "crochione" (c'è solo un "crocc" col significato di botta in testa che, peraltro, è anche italiano).
Crochione non vuol dire altro che "gran testone", nel senso di molto ottuso.
E' bene dire, a questo punto, che i sambucani ricambiano i pavanesi con lo stesso "affetto", dato che per loro i "crocchioni" (con due "c") sono i pavanesi.

NOTA:

"Dizionario bolognese", Vallardi, Milano 2000
"Vocabolario Pistoiese", Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2000
"Dizionario del dialetto di Pavana", Pro Loco Pavana - Nueter, Pavana Pistoiese, 1998
E. FERRARI, "Tracce di isoglosse e ssotrato nei dialetti pavanese e sambucano", Sambuca Pistoiese, 1997

IL GERGO DEI BOSCAIOLI

"Io canterò la vita strapazzata
 di chi alla macchia va per lavorare,
vita tremenda, vita tribolata,
chi non la prova non può immaginare.
Credo all'inferno, un'anima dannata
Non possa così tanto tribolare,
né possa avere tanto spasimo e dolore,
quanto ne ha un carbonaio e un tagliatore"

(Jacopo Lorenzi di Carpineta di Sambuca Pistoiese (1922))*

Tra le molte note di vita grama e infame dei nostri montanari un capitolo speciale è offerto dai boascioli: Uomini dell'Appennino Pistoiese, Pratese, Bolognese, Lucchese, Modense che erano costretti per sopravvivere a recarsi in luoghi lontani (principalmente Maremma Toscana, Calabria, Sardegna, Corsica, ma anche Lazio, Abruzzo, Basilicata, Francia, Algeria) a fare "campagna". Sentiamo così la necessità di dedicare un capitolo speciale delle nostre pagine sui dialetti gallotoscani riportando un piccolo glossario (che riprende per sommi capi quello pubblicato in "Il boscaiolo" di Giorgio Sirgi (Centro Editoriale Castel di Casio, Bologna 1991)):
 
ABBOCCO: è il sistema attraverso il quale venivano legati i sacchi di carbone
BACCHIARELLE: costituiscono il rudimentale molleggio delle "rapazzole"
BALLE: i sacchi di juta ove stipare il carbone prodotto dalle carbonaie
BARLETTA E BARLETTO: recipienti di legno  di dimensioni diverse per il trasporto di acqua o vino
BIETTA: si tratta di un cuneo di ferro usato per spaccare i grossi tronchi di legno
BRASCHETTINO: il carbone più fino
CAMPAGNA: il periodo passato in macchia a svolgere l'attività. Le campagne duravano molti mesi ed erano fatte durante il periodo passante tra il tardo autunno e l'inizio primavera
CARBONAIE: realizzato da mucchi di legname accatastato e ricoperto con terra e foglie. Bruciano lentamente si riusciva ad ottenere la legna dal carbone
CAROLANTI: era il nome con cui venivano indicati gli uomini (mai tosco - emiliani, ma sempre gente del luogo) che trasportavano il carbone prodotto dalle carbonaie fino al posto di carico (nave, camion o quant'altro). Per la loro attività i carolanti facevano affidamento su dei carri trainati da grossi buoi (**)
CIAUU: era l'urlo di richiamo dei vetturini per fare accorrere i boscaioli e i carbonai
FASCINE: erano rami di   quercia o di pioppo tagliati ed essicati. Erano usati per l'alimentazione invernale degli animali.
FORNELLI: pericolosi buchi che si possono aprire sulle carbonaie. Se non chiusi per tempo la carbonaia può bruciare e incenerirsi.
IMBASTATA: fila di animali da soma (generalmente muli) usata dal vetturino
MACCHIA: il bosco
MATRICINE: le piante di media età che non dovevano essere tagliate per consentire la riproduzione del bosco
MATTARELLA: si tratta di un bastone di legno usato per mescolare la polenta sul fuoco
MEO:  il ragazzino apprendista che doveva cuocere per tutti la polenta, procurare l'acqua andare a fare la spesa, svolgere alcune attività "leggere" dei boscaioli
PIOTA: Poiché le campagne venivano fatte in macchia i boscaioli vivevano in baracche di legno da loro costruite. La piotta era una zolla con manto erboso o muschio utilizzata per ricoprire il coperto della baracca.
RAPAZZOLA: il giaciglio del boascaiolo fatto di legname, rami e foglie. E' voce maremmana entrata a fare parte di tutti i dialetti dell'appennino bolognese e pistoiese
RASTELLO: si tratta di un attrezzo usato per tirare via il carbone dalle carbonaie
RAZOLA: si tratta di un rovo con lunghe spine rovesciate. Il termine riveste un notevole interesse perché noto anche ai boscaioli pistoiesi a sud della linea La Spezia - Rimini (es: i boscaioli San Mommè che pure non lo usavano nel loro paese di origine) nonostante sia chiaramente un termine gallo - italico (cfr. bolognese: raaza). Ciò conferma che la terminologia dei boscaioli è veramente una sorta di lingua franca che accomunava tutti questi sfortunati montanini.
SCULETTINI: erano gli uomini che si caricavano di pesanti sacchi di carbone per il trasporto nei luoghi più impervi
TANCA: i pascolo controllato dove venivano lasciati i muli in consegna alla fine di una "campagna"
VALLO: lo strumento usato per raccogliere da terra e insaccare il carbone
VETTURINO: conduttore e caricatore di muli per il trasporto di legna o carbone
ZOCCOLO: era una specia di scarpa di legno usata per lavorare attorno alle carbonaie senza bruciarsi i piedi fra le braci sparse.


nota:

(*) ...

(**) Dal libro di Sirgi (Op. cit., p. 117): "Mi è pure rimasta impressa la vitra tribolata dei buoi dei carolanti che trasportavano il carbone. Avevano il giogo appiccicato e legato strettamente alla corna in squadro, per cui erano obbligati a camminare sempre pari. Venivano guidati con un cordino alle orecchie e pungolati con bastoni di leccio secco, fortemente appuntiti. Si lamentavano come dei disperati, sotto il traino di carri pesantissimi, lungo strade inacessibili, nei boschi".

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UN CANTO SUI BOSCALI

il “Il Maremmano” di Policarpo Petrocchi pubblicato in “Fiori di campo” del 1873 (Milano, Tip. Libreria Editr. G. Agnelli, 1876).

Con l'accetta in spalla e 'l capo basso
Quel montanin s'avvia per le Maremme;
Du' panni In un fagotto; in tasca 'I Tasso:
Ecco tutto 'l su'lusso e le su' gemme!
La vecchia mamma seguita 'l su'passo;
Lui va, per no'straccarla, lemme lemme,<
E le dice: Il mi'bimbo, mamma tièmmelo di conto;
ho lui solo e a te lo lasso.
Per no' sturbarlo, manco l'ho abbracciato:
Dormiva com'un àngiolo stamane,
E... mi pàr d'àndar via mortificato!
Quand'è svègilo, chi sa come rimane!
... Mamma, va' a casa, e, quando l'hai baciato,
Digli: 'l tu' babbo è a guadagnatti 'l pane'.


CLICCA ANCHE QUI PE VEDERE I TESTI DEL TRADIZIONALE LAMENTO DEL CARBONARO: http://it.geocities.com/kenoms3/altorenotoscano/tradizioni/lamento.htm