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“Perché io mi spicco mal volentieri da bomba; dipoi ad avere a travasare moglie, fante, masserizie, ella non mi quadra. Oltr'a questo, io parlai iersera a parecchi medici: l'uno dice che io vada a San Filippo, l'altro alla Porretta e l'altro alla Villa; e' mi parvono parecchi uccellacci; e a dirti el vero, questi dottori di medicina non sanno quello che si pesano” (Niccolò Machiavelli, Mandragola, Atto I, Scena 2) |
SABATTINO DEGLI ARIENTI
LE PORRETTANE (ESTRATTI)
Corre l'anno 1475 quando una compagnia “nobilissima e graziosa” si ritrova ai
bagni della Porretta per curarsi e raccontare novelle edificanti o sboccate, triste o facete,
ma sempre simili allo stile del Decameron di Boccaccio.
Alto Reno Toscano ha il piacere di presentare alcuni stralci di questa opera che ha per sfondo
questo paese dell'Alto Reno.
LETTERA DEDICATORIA
Se le umane forze affaticate, Ercole estense, inclito duca e
valoroso mio signore,non vengono a tempo debito aiutate da
un riposo onesto e piacevole, non possono resistere nelle quotidiane
fatiche. Tanto più che molte volte noi miseri mortali siamo soliti
impegnarle oltre misura. E poichè il riposo fu previsto
già da Licurgo, legislatore spartano, e da altri sapientissimi uomini,
ho preso l'ardire,affaticando l'ingegno, di porre
mano alla presente opera che narra piacevoli novelle; le quali,
me presente, furono con grazia e onestamente recitate nei bagni
della Porretta da una nobilissima e graziosa compagnia di
uomini e di donne, che vi si erano portati per varie circostanze
a bere la miracolosa acqua del famoso bagno situato fra due altissimi
monti, al seguito del prestantissimo conte Andrea Bentivoglio
degnissimo patrizio della nostra città, ornato di integrità e valore
quant'altro mai nel senato bolognese, amato da
tutti per i suoi meriti e in grazia di Ludovico suo padre (le cui
esimie virtù, note al sommo pontefice Nicolò V, gli fecero ottenere
il cavalierato e lo stocco papale in una notte di Natale sopra
l'altare maggiore di San Pietro durante i sacri riti, per si- -
gnificare che inquella notte nacque il Re supremo. Quella spada
viene conferita solo ad altissimi principi degni di trionfo e
di gloria; per cui Ludòvico fu meritatamente chiamato con
pubblico decreto «padre della patria» come attestino i suoi
trofei militari posti nei templi di Dio;
e alla sua morte ebbe non patrizia ma imperiale sepoltura).
Trovandosi dunque il conte Andrea suo figlio ai bagni della
Porretta, dopo pranzo si ricreava assieme al suo seguito,
da uomo benigno e grazioso,
con appropriati giochi, suoni, canti e balli, ai quali intervenivano,
come in una corte, tutti i bagnaroli e altri ospiti provenienti da varie nazioni.
e dopo esser rimasti
in questi trattenimenti fino al tramonto e aver fatto colazione
con vino e dolcetti, se ne partivano con suoni, canti e piacevoli converasazioni,
andando un giorno a mano destra e l'altro a mano sinistra
del fiume Reno ivi propinquo, finché trovavano
qualche ameno colle con un praticello adorno di erbe profumate e cinto
di frondosi e ombrosi arbusti.
Qui fermatisi, discreti servi stendevano con cura tappeti
di Cipro sui quali ognuno
prendeva posto a sedere fraternamente, per fuggire l'ozio e il
dormire diurno, cosa pericolosa per chi assume l'acqua di Por-
retta; e cominciavano a chi meglio narrare sapeva, piacevoli e
aspri casi d'amore e altri avvenimenti, accaduti sia nei moderni
tempi comene gli antichi, finchè il sole non tramontava e l'aria
si faceva fresca. Poi se ne tornavano, cantando versi d'amore e
di dolore, nelle loro abitazioni a prender i necessari cibi; dopo i
quali si faceva qualche danza e gioco a lume di torce, finchè venisse
il tempo del riposo notturno, mentre già nel cielo splendevano
chiare le stelle.
Avendo dunque ascoltato con tanto diletto molte novelle
narrate da diverse persone, mi sembrava cosa indegna non far-ne memoria,
sebbene il mio ingegno fosse insufficiente di fronte a tanto compito.
Ma presi la penna e, per quanto la mia labile memoria fu in grado,
ne ho scritte alcune in forma del presente
libro, che è veritièro, per dedicarle al tuo ducale valore come
segno della mia fedeltà devotissima, gesto al quale mi porta il
nostro vincolo compaterno oltre al tuo amore per la nostra illustre
città, testimoniato dai vincoli familiari contratti con la
gloriosa famiglia Bentivoglio. Pertanto mi augurochequeste
novelle siano lette con piacere da te, signore illustrissimo, e
trasmesse ai posteri a tua gloria.
Ti prego adunque signor mio, per la fedeltà che ti ho dimostrata
in tanti anni, di accettare con benevolenza questi piacevoli
intrattenimenti; e quando potrai riposarti dalle gravose incombenze
del tuo governo, alle quali ti applichi in modo esemplare,
leggile a mia consolazione, pregandoti di conservarne il
titolo che ho loro dato di “Le porrettane novelle” a ricordo del
luogo in cui sono state narrate.
***
NOVELLA QUARTA
Un causidico bolognese prende a pugni un collega in tribunale; viene
condannato a pagare una multa e si accorge di avere indosso solo una
moneta d'oro; la quale pagando, dà un altro pugno al rivale e se ne va
assolto.
Mi ricordo di aver sentito da persone degne di fede che
quando la nostra città era soggetta interamente allo Stato
della Chiesa, c'era un dotto causidico della nobile famiglia
dei Castelli di nome Dionisio, uomo di grandissimo ingegno
e di elevata dottrina, grandemente dedito al bene della patria;
il quale convenne in giudizio per difendere madonna Margherita
di Piero Guidotti di generosa memoria, consorte dell'illustre
signore Giovanni Bentivoglio; mentre il causidico di
parte avversa difendeva un parente.
La causa si svolgeva davanti a Nicoluzzo Piccolomini senese, allora
degno pretore della nostra città. Come spesso accade,
i due procuratori un giorno si lanciarono in feroci dispute
a favore dei propri clienti, e l'altro giunse a offendere l'onore
del nostro, il quale acceso d'ira e di sdegno, stringendo i denti
ricambiò il collega con un fiero pugno.
Il podestà subito redarguì il Castelli per il gesto inconsulto
avvertendolo che era incorso in una grave mancanza; e gli
proibì di lasciare il palazzo prima di aver pagato una multa;
e l'avrebbe anche messo agli arresti, se la sua notorietà e
il nome della sua famiglia non l'avessero trattenuto.
Messer Dionisio rispose con virile cera:
«Magnifice pretor, le leggi di questa città stabiliscono che
il mio gesto possa essere multato al màssimo di dieci bolognini»
Così dicendo pose mano alla saccoccia e ne trasse dieci ducati larghi d'oro
Il pretore rispose sdegnato:
«Nonho resto; mandate voi la moneta al cambiatore.»
Il Castelli, al quale non era ancora sbollita la rabbia, si rivolse
improvvisamente al collega procuratore, che con la bava
alla bocca si lamentava chiedendo ragione del pugno ricevuto,
e disse:
«Per dio, prenditi anche quest'altro», e gli diede un altro
fiero pugno sulla mascella sinistra. E rivolto al giudice:
«Domine pretor, fate conto che abbia pagato per tutti e due i pugni;
tenetevi il denaro, perché un uomo è ben da poco
se non può spendere dieci ducati per saziare un suo appetito.»
E voltate le spalle al pretore se ne andò a casa, lasciando
col viso tumefatto il collega; il quale dolendosi e rammaricandosi
infinitamente col podestà, alla fine bisognò che avesse pazienza.
Il podestà, sebbene gli dispiacesse che tutto questo fosse
avvenuto in sua presenza, si divertì un mondo e a fatica si
trattenne dal ridere; e infine, come dice il noto proverbio, chi
ricevette il male ne ebbe anche il danno.
NOVELLA TRENTESIMA SESTA
Lipparello di Granaglione si nasconde in casa e ordina alla moglie di
sedurre don Pedruzzo per poterlo bastonare; il quale lo beffa facendo l'amore
con la moglie sopra la cassa ---
Dovete sapere che ai miei tempi su queste montagne ci fu
un prete donnaiolo di nome don Pedruzzo, che si innamorò
della moglie di certo Lipparello Zanzi di Granaglione. Il
quale non sopportava che il prete andasse dietro alla sua donna,
e più volte gli fece sapere di smetterla. Ma inutilmente;
anzi più veniva pregato, più il prete insisteva a seguirla. Lipparello
allora pensò di sistemarlo a dovere e disse alla moglie
di invitarlo a casa loro, facendogli capire che lui era assente:
si sarebbe invece nascosto, e arrivato il prete l'avrebbe conciato
per bene. Non piacque alla moglie la proposta, forse
perchè anche lei voleva bene al prete che era giovane, tondo e
gagliardo:
«Lipparello, non sai quello che dici. Sarai scomunicato, e
il nostro capitano Marco Canetoli ci potrebbe punire severamente.»
«Taci!»ordinò il marito. Lascia che me la sbrighi io,che
gli salverò la chierica, e fà quello che ti dico: altrimenti dovrei
pensare che lui ti piace, e allora la penitenza toccherebbe a
te.»
La moglie vedendolo deciso si risolse al male minore:
«E va bene. Ma secondo me sarebbe meglio lasciarlo vivere
nella sua infatuazione, perchè comunque io sarò svergognata
invitandolo.»
«Basta, mi hai capito.Non mi romper più la testa»,replicò
Lipparello scuro in volto.
La donna dunque invitò il prete, dicendogli che il marito
era andato a Vergato per una causa. Don Pedruzzo lieto come
una pasqua, andò; ed era tanto impaziente di trovarsi con la
donna, che entrò in casa senza bussare e salendo le scale disse:
«Chi c'è qua?»
La donna, che era ancora in camera col marito a decidere sul
come comportarsi, esclamò:
«Oh Dio, c'è già donPedruzzo!»
Lipparello, che non faceva più in tempo a nascondersi dove
aveva pensato, s'infilò in un cassone e raccomandò alla
moglie di chiuder la porta, perchè il prete non potesse uscire
senza le botte. La donna richiuse la cassa e inavvertitamente
le diede un giro di chiave. Appena in tempo. Arrivò il prete e
salutò: «Speranza mia dolce, finalmente ti sei decisa!»
Volendole subito far festa, lei non voleva e lo pregava di
andarsene, che ai frati non si conviene essere innamorati.
Ma lui,incurante delle parole e della predica, cominciò a
smaniare abbracciandola e tentando di baciarla per carità.
Lei si mostrava sdegnosa e il prete a dirle:
«Stà pur cheta ,donna mia. L'amore senza baci è come l'uovo senza sale».
E combatteva con lei, tenendola forte fra le braccia.
La donna, vedendo che il marito non interveniva (non immaginandosi
che fosse chiuso a chiave) alla fine si lasciò vincere;
forse non poté fare altrimenti, essendo stata spinta sulla
cassa dove il marito era rinchiuso.
Allora disse:«Ti venga
la rabbia, marito; se è questo che vuoi, questo avrai!»
Il prete cominciò a gustare il miele e ledava saporiti baci
dicendo: "Cuor mio dolce, chi fa così non muore mai di rabbia»
Lipparello soffriva allo stremo, non potendo uscire dalla
cassa chiusa a chiave. Alla fine disse:
«Apri presto! Vi venga il fuoco di Sant'Antonio, ribaldi!»
E dava dei pugni al coperchio della cassa.
A queste parole e rumori don Pedruzzo, che si era già
soddisfatto, disse: «Chi diavolo c'è qui dentro?»
E preso da spavento
lasciò la donna e se ne andò da una finestra, la porta essendo chiusa.
La donna aprì subito la cassa, il marito uscì e
cominciò a litigare con lei perchè l'aveva chiuso a chiave. Lei
si scusò come meglio poté, ma non so come andò a finire:
forse sopportò bene la penitenza del prete.
Ecco, credo che il vostro Roberto avrebbe ben meritato
quello che capitò al mio amicoLipparello.
Ciò detto fece una riverenza e disse:«Continuate pure a divertirvi».
E lasciando la brigata fra le risa, se ne tornò all'albergo.
NOVELLA TRENTESIMA OTTAVA
Zio Padella, mentre va a rubare delle pesche con dei trampoli, viene
creduto un lupo e catturato; gli scorticano la testa e il viso e ne ricava
un nome eterno a sè e ai suoi discendenti
Dovete sapere che Messer Lippo Ghisilieri fu cavaliere
splendido, nobile di famiglia, di stato e di grandezza d'animo.
Aveva l'abitudine di correggere severamente chi sbagliava, in
particolare i villani scostumati, che ancora ai nostri giorni temono
il suo nome. Aveva dei poderi a Poleseno da Sira in località
Torre dei Ghisilieri, con un bel frutteto (che io ho visto
più volte) assai produttivo, ricco di vari e deliziosi frutti e in
particolare di bellissime pesche, che gli venivano ogni notte
rubate da un contadino di nome'Zuco Padella (per il resto uomo dabbene,
che si contentava del dovuto e quando poteva
andava a mangiare buoni fegatelli in trattoria, e non per vizio
di gola ma per sostentare il corpo). Messer Lippo,
cui molto premevano i suoi frutti, decise di
trovare ad ogni costo il ladruncolo per farglieli digerire con
un tocco di amarezza. Fece mettere nel frutteto delle
lambrechie conficcate per terra in modo che non si vedessero,
appuntite con chiodi in superficie in modo che chi andava
a prendere l'indulgenza si forasse i piedi.
Il ladruncolo tornò puntualmente al tempo delle pesche;
appena mise piede nel giardino si forò gravemente l'alluce.
Sentendo dolore, si chinò con la mano per aiutarsi e mentre
si liberava dal chiodo capì d'essere caduto in trappola e imprecò:
«Giuro che te la farò pagare, messer Lippo! Vedrai che
il villanzone sa una più del cavaliere!
Il giorno dopo mise a un paio di trampoli due ferri di asino
per non forarsi i piedi e perchè sembrassero orme di asino,
e la notte se ne andò sghignazzando al frutteto; si riempì
delle più belle pesche che c'erano e se ne tornò a casa.
Messer Lippo, avvertito, andò al frutteto e così decise:
«Se non avessi messo questi chiodi, crederei che il ladro
sia veramente un asino; non un lupo, che si sarebbe scorticato i piedi.
Ma dev'essere uno che si è messo i ferri sotto i pied iper furbizia,
e mi piacerebbe conoscerlo perché dev'essere
un tipo in gamba, piacevole e allegrone.»
Così, fatte cogliere tutte le pesche tranne che un albero
delle più belle, vi fece scavare attorno una gran buca a mò
di trappola per lupi, in modo tale
che nessuno se ne sarebbe mai accorto. E per tre notti fece personalmente
la guardia assieme a tre servitori. La terza notte il ladruncolo venne sui
trampoli e senza troppo cercare andò diritto al pesco lasciato
carico; dove giunto, cadde subito nella trappola, rischiando
di rompersi l'osso del collo per via dei trampoli. Lippo chiamò i servi e disse:
«Presto, prendete la secchia che è sul fuoco
e venite, che abbiamo preso il lupo.»
Giunti subitamente alla lupara con l'acqua bollente, la
versarono; Zuco Padella, scottato violentemente, cominciò a
gridare a più non posso: «Pietà, pietà!»
E messer Lippo: «Chi c'è qui dentro?»
«Ahimè, sono Zuco Padella!»
«Come, Zuco Padella! Forse che Zuco Padella è diventato
un lupo? Credevo di aver preso un lupo a quattro zampe, non
a due!»
Lo fece prendere su e cominciò a ridere, vedendo le zanche
ferrate con ferri da asino. Poi disse:
«Bene, bene! È stata una caccia fruttuosa: volevo prendere un
lupo e invece ho preso l'asino che mi mangiava le pesche.
Villano e ladrone che non sei altro! Credevi di gabbare
Lippo e invece lui ti ha fottuto, che ti vengano mille cacasangui!
Un'altra volta lascia stare la mia frutta e mangiati la tua,
cioè rape, agli, porri, cipolle e scalogni con pan di sorgo!»
Così dicendo lo cacciò via. E Zuco Padella ci mise tre mesi
a guarire dallo scorticamento; e gli affibbiarono il nomignolo
di Zuco Pelato, rimasto tuttora ai suoi discendenti che si
chiamano Pelati.
NOVELLA CINQUANTESIMA
La volpe dice al gallo di far finta di dormire, quando lei verrà a rubare le
galline dei vicini. Poi si ingannano a vicenda.
\
Quando vivevo con la mia buona nutrice a Crespellano,
frazione bolognese, lei mi voleva un gran bene e mi cresceva con
lusinghe, e spesso mi prendeva in braccio con amorosi baci
e mi cantava la favola di una volpe che venne a Crespellano
a far preda di galline. .
Per riuscire nell'intento doveva passare davanti alla casa
di una comare della mia nutrice, che però aveva un gallo
vigilante e gagliardo che come la vedeva gridava e batteva le
ali in modo tale che tutto il vicinato sentiva.
Così la volpe non riusciva a prender niente, e affinchè i
suoi volpini non morissero di fame, da astuta qual era riuscì
ad accordarsi col gallo: lui doveva far finta di dormire quando
lei sarebbe passata, e lei non avrebbe cercato di prendergli
le galline.
Il gallo accettò, corto d'ingegno com'era, e quando la volpe passava
chiudeva a metà gli occhi e scuoteva la testa come
se dormisse; e appena era passata li riapriva, perchè non si fidava
del tutto di lei. Così la volpe andava dai vicini e riusciva
a portare buone galline ai suoi cuccioli.
Ora avvenne che, non essendoci piùgalline nel vicinato, i
volpini continuavano a chiedere da mangiare; la volpe diceva
loro che non c'erano più galline, tranne che nella casa del gallo
al quale però aveva promesso di non prenderle per avere
via libera. «Mamma -risposero loro- prendete il gallo, così
avrete anche le galline.»
«Avete ragione-disse lei-ma come fare?»
Una mattina, spinta dalla fame dei piccoli e sua, andò
verso la casa del gallo, che era già giorno.
Fece finta di passare oltre, come al solito,
ma quando fu vicina al gallo che fingeva di dormire,
sveltamente lo afferrò per il collo e se la diede a gambe.
Il che vedendo alcune donne del paese, cominciarono a gridare:
«Alla volpe! Alla volpe! Lascia il gallo! Lascia il gallo, ribalda che è mio»
Il gallo allore disse sottovoce alla volpe:
«Lascia un po' la stretta per la miseria, e dì a queste villanuzze che ormai appartengo a te:
io confermerò e tu potrai mangiarmi senza che nessuno ti accusi».
La volpe, senza starci a pensare lasciò la stretta e urlò alle contadine vocainti:
«Il gallo è mio, ladre che non siete altro, me lo sono guadagnato con fatica e sudore,
e lui ve lo potrà confermare»
Il gallo intanto, vistosi libero, volò subito su un vicino alberello; la volpe si girò per
riprenderlo in bocca, e lo vide che si puliva le penne sull'albero. Allora disse scornata:
«Si fa male a parlare quando gli altri non han bisogno». E il gallo: «E' peggio dormire
quando gli altri non hanno sonno!»
Così la volpe dovette andarsene a mani vuote per paura del peggio, e il gallo se ne tornò
a casa libero.
NOVELLA CINQUANTESIMA OTTAVA
Bruschino, mentre si ascolta la condanna a morte di un ladro, ruba con
astuzia un paio di capponi e viene condannato alla frusta; poi per una
battuta che dice viene liberato.
\
Il mio racconto che sarà breve non vuole provocare dispute ma diletto e divertimento,
e dimostrare che le disgrazie
non accadono mai «per il meglio» come invece si ricava dalla
novella precedente.
Al tempo in cui i Pepoli governavano la nostra città ci
fu un uomo dedito esclusivamente al vizio: si chiamava Leonardo ma era
soprannominato Bruschino perchè veniva da
Bruscoli, castello del nostro territorio (poi passato ai signori
fiorentini, a motivo del fatto che in quei tempi i nostri cittadini,
penso per le continue lotte fra di loro, non si curavano affatto dei beni
della nostra già opulenta repubblica.
Ma se la
fortuna non avesse prima interrotto e poi annullato con una
morte ingrata i progetti dell'eccelso principe Giovanni Bentivoglio
,egli avrebbe rivendicato a Bologna e ripreso il detto
castello di Bruscoli, Cavrenno, Piancaldoli e Sambuca con
buona pace dei fiorentini; e si sarebbe interrotto il beffardo
parlare di questi che dicevano: «Noi abbiamo il vino brusco,
il pan caldo, il capretto e il sambuco, e ci manca solo il cacio
- cioè il castello di Casio - per fare delle buone frittelle»).
Ma tornando a Bruschino per ricordare il quale ho fatto
questa digressione, ho udito molte volte dire che lui, dedito al
gioco d'azzardo, perse in breve tempo tutto quello che aveva,
anche se non era molto. Del che lamentandosi con un amico,
questi rispondeva che avesse pazienza e prendesse ogni cosa
per il meglio; Bruschino rispondeva che non ci pensava neppure,
perchè «il meglio» sarebbe stato se fosse toccato a lui e
non agli altri vincere. Ora lamentandosi continuamente della
sua sfortuna, sembrava che gli altri, come fanno di solito le
persone malvage, si rallegrassero del suo male e del suo stato
miserando; così che lui non essendo capace d'altro si mise a
rubare delle galline.
Un sabato, giorno di mercato, si leggeva una sentenza di
morte contro un ladro alla ringhiera del podestà;
c'era andato anche Bruschino,
più che altro per rubare qualcosa. E
infatti con gesto scaltro sottrasse un paio di capponi a una
povera contadina che li aveva portati a vendere; se li mise
sotto il mantello e tirò loro il collo. Poi sentendo pronunciare
la sentenza contro il ladro, che aveva proprio rubato dei capponi,
esclamò: .
«Se i padroni di quei capponi avessero loro tirato il collo
come ho fatto io, non glieli avrebbero rubati»; e si stava allontanando.
La donnetta, guardandosi intorno e non vedendo i
suoi capponi, esclamò:
«Oimè sciagurata, dove sono li mei capuni?»; e sentendo dir
quelle cose da Bruschino sospettò che fosse stato lui a rubarli.
Subito drizzatasi in piedi affidò altre sue mercanzie a una
collega e gli corse dietro urlando: «Ehi giovanotto, ridammi
indietro i miei capponi!»
La voce fece il giro della piazza e Bruschino venne circondato;
riconosciuto reo di aver tirato il collo ai capponi, fu preso
e condannato ad esser frustato sul collo con gli stessi capponi,
come atto di giustizia esemplare. Mentre gli mettevano
in testa la mitria dei condannati, cominciò a piangere; il capitano
delle guardie, fatto si pietoso, gli diceva di aver pazienza,
ché quella punizione era «per il meglio», che ringraziasse
Dio.
Al che Bruschino:
«Sia ringraziato sempreDio, ma non per questo:
perchè questo mi capita non per il meglio ma per aver rubato dei capponi, accidenti a loro!
Non fatemi del male, giuro che non lo farò più.»
Per queste e simili parole la guardia cominciò a ridere forte
insieme ai suoi sbirri; chiesto il podestà il motivo di quella
ilarità e appuratolo, cominciò a ridere anche lui e fece sospendere
il castigo. Dopo qualche giorno di carcere Bruschino
fu liberato.
La mia conclusione è, contrariamente alla novella precedente,
che le disgrazie dei tristi provengono sempre da loro
mancanze e non dal corso delle stelle.